EditorialeLa verità delle povere allodole

 

di Dino Dozzi

Direttore di MC

 

È la cultura dell’incontro quella che papa Francesco sta portando avanti con i suoi gesti e con le sue parole. Incontro con tutti, soprattutto con coloro che vengono considerati gli ultimi da coloro che si ritengono i primi e con coloro che vengono ritenuti lontani da coloro che si considerano i più vicini. Primi e ultimi, lontani e vicini: ma rispetto a chi o a che cosa? Quale punto di riferimento prendiamo? È lontana Lampedusa o è lontana Roma? È primo il famoso miliardario evasore che magari fa il gesto dell’ombrello o è primo l’anonimo onesto lavoratore che magari ha perso il lavoro? Ognuno di noi fa una sua gerarchia di primi e ultimi, di lontani e vicini in base al criterio che usa. E da quel criterio, dopo le valutazioni, derivano poi le scelte concrete. Almeno quelle che ognuno può permettersi. Perché non ha molte opzioni chi è ridotto in povertà e vede solo porte chiuse attorno a sé.

Anche Gesù nel vangelo mostra di avere una sua gerarchia dichiarando beati i poveri e facendo scelte che lo faranno considerare «amico dei pubblicani e dei peccatori» e mettendosi accanto a coloro che i primi consideravano gli ultimi. Lo stile di papa Francesco manifesta la gerarchia dei valori che lo guida, quella che il concilio Vaticano II chiama coraggiosamente «la gerarchia delle verità»: espressione poco usata da allora, perché sentita pericolosa e bisognosa di troppe spiegazioni, ritenute non sempre comprensibili ai non addetti ai lavori.

Il teologo Victor Manuel Fernández, rettore della Pontificia Università Cattolica Argentina, nominato arcivescovo da papa Bergoglio, tenta di spiegarla con alcuni esempi. Se un sacerdote, lungo l’anno liturgico, parla dieci volte di morale sessuale e soltanto due o tre volte di amore fraterno o della giustizia, non tiene conto della “gerarchia delle verità” evangeliche; ugualmente, se parla spesso contro l’unione tra omosessuali e poco della bellezza del matrimonio, se parla più della legge che della grazia, più della Chiesa che di Gesù Cristo, più del Papa che della Parola di Dio, più della giustizia di Dio che della sua misericordia, più dell’inferno che della beatitudine eterna, più dei doveri cristiani che dell’amore di Dio per tutti, o non ha capito o non tiene conto della “gerarchia delle verità” rivelate. Costruire mura di divisione e di contrapposizione più che ponti per unire e incontrarsi è poi addirittura tradire Colui che è venuto per abbattere i muri ed è la nostra pace (cf. Ef 2,14-18).

Papa Francesco, più che alle discussioni teoriche sulle ermeneutiche riguardanti i documenti conciliari, pare interessato a tradurli concretamente in pratica con gesti e comportamenti di dialogo, con scelte di rinnovamento e di riforma nel segno della sinodalità e della partecipazione, con uno stile di umiltà e di vicinanza alla gente che intende riportare i pastori tra le pecore, dai palazzi principeschi alle periferie, dall’autoreferenzialità sterile e malaticcia al coraggioso sporcarsi le mani in un servizio per i poveri, con poveri e da poveri.

Qualsiasi forma di potere, a cominciare da quello interno alla Chiesa - va ripetendo con forza - deve porsi chiaramente come umile servizio e rinunciare a qualsiasi privilegio e mondanità spirituale. A papa Francesco non piacciono le croci troppo luccicanti e preziose, i vescovi “da aeroporto”, i cristiani “da salotto”, i controllori della misericordia di Dio. Non ha paura di scendere e stare fra la gente, trova il tempo di rispondere a Scalfari su “La Repubblica” e di telefonare a qualcuno che gli ha dato un biglietto dicendogli la sua sofferenza. Permette a tutti di entrare nella sua meditazione quotidiana della Parola di Dio, indicando ai sacerdoti anche un modo nuovo di predicare.

Cultura dell’incontro, pratica del dialogo, atteggiamento di servizio, attenzione agli ultimi. Uno stile evangelico che rivela una gerarchia evangelica delle verità. E questa «è solo l’aurora», aveva detto papa Giovanni aprendo il Concilio cinquant’anni fa. Un’aurora lenta, ma bella e che fa ben sperare, perché il tempo è il messaggero di Dio. Soprattutto per Natale, quando san Francesco proponeva che «tutti quelli che ne hanno possibilità debbano spargere per le vie frumento e granaglie, affinché in un giorno di tanta solennità gli uccellini e particolarmente le sorelle allodole ne abbiano in abbondanza» (2Cel 200: FF 788). Se non proprio anche per le sorelle allodole, a Natale potremmo pensare al cibo almeno per i fratelli poveri.