Nel nome del padre e del figlio

Rigenerare il nostro essere Chiesa nell’attenzione e nella tutela del prossimo

di Alessandro Casadio
della Redazione di MC

Casadio1Il segno della croce nella carne

E alla fine tutto si riassume in una relazione di padri, di madri, di figli, dalla cui modalità e intensità è difficile scappare, senza privarsi del gusto fascinoso di essere comunione, di essere Chiesa. Potremmo parlare di adorazione e contemplazione, e sono cose belle, ma sembrano una luna irraggiungibile, potremmo essere rapiti nella luce, ma io sono un po’ fotofobico e il pensiero non mi alletta più di tanto, l’unico concetto che penetra nella mia precaria carne e che riesce a spiegarmi in maniera comprensibile l’essenza di Chiesa è la relazione genitoriale, filiale e fraterna. La grande famiglia che ad ogni livello offre accoglienza, tutela e strumenti, come tre modalità dell’amore, affinché anche il più piccolo e disperso dei suoi membri possa esercitare il meraviglioso dono della libertà.
Che credibilità potrebbero avere, altrimenti, i nostri sacerdoti quando nelle loro migliori omelie ci raccontano dell’attenzione premurosa di Gesù per gli afflitti e per gli ultimi, se non esistesse nella realtà visibile qualcuno che sappia concretizzare la stessa carità. Ed è ovvio che più tale modello si presenta ai nostri occhi e più si configura come modello di vita. Il primo onere, quindi, che dobbiamo accollarci, è quello dell’accoglienza verso tutti. Tuttavia, quello che oggi è facile percepire nella Chiesa è un atteggiamento di paura e diffidenza, desiderosi come siamo di lamentare fantomatiche persecuzioni e di garantirci dei diritti, quando non dei privilegi. Ciò che, al contrario, scarseggia è la cura premurosa che, aggirando le insidie del bon ton e del politically correct, espliciti attenzione, scevra di qualsiasi giudizio: facciamoci prossimo. L’anelito di sacro che sbircia dagli occhi di tanti “lontani” non è spesso capace di voli oceanici, ma fonda le sue speranze sulla presenza di piccoli isolotti accoglienti, che gli permettano di riposarsi. Ai tanti credenti sgomenti del calo di interesse per la religione, credo di poter rispondere che tra la sua autentica proposta di vita e l’uomo in ricerca si è frapposta la nostra pesantezza strutturale, che ci fa vivere in funzione di essa, più che nell’ottica del servizio agli altri. Ed eccoci allora divenuti manager più o meno brillanti del credo, preoccupati del calo vocazionale come qualcosa che comprometta il valore dei titoli della Chiesa s.r.l. che stiamo gestendo. C’è l’abbandono post sacramenti dell’iniziazione cristiana e la scristianizzazione in generale, ma finché continueremo a dirci ch’è colpa del mondo, immaginandolo come qualcosa fuori di noi, di cui non siamo responsabili, difficilmente favoriremo il recupero del senso religioso.
Non si tratta di ripristinare una devozione antica, sotto forma di puritanesimo alieno, o di rispolverare codici di ortodossia incompatibili con l’esistenza, semplicemente bisogna recuperare il senso di paternità, in cui è inclusa la maternità, a cui Dio ci richiama da sempre.

Tutelati e non estromessi

All’accoglienza va aggiunto uno sforzo convincente di tutela, che autentichi il nostro farci prossimo. Tutela che deve essere principalmente della libertà dell’altro, anche se le sue scelte dovessero portarlo lontano da noi, considerando vero cammino di crescita, né più né meno come per i figli, anche errori, sbandate e sofferenze che derivino da scelte operate in autonomia. Proprio e soprattutto in queste situazioni difficili si avverte l’urgenza di una tutela, che si espliciterà nella conferma della massima disponibilità e del massimo amore a prescindere da ogni comportamento. Nella nostra realtà, abbiamo invece applicato etichette morali che, classificando le persone in categorie, frappongono argini invalicabili. Dettati da timori di impurità, di confonderci promiscui col peccato o dalla paura della degenerazione (perché la carne è debole), abbiamo avuto atteggiamenti scostanti nei confronti dei matrimoni in crisi, delle separazioni, dei problemi delle famiglie allargate, desiderosi, per vergogna, di non mescolarci a questa problematica, creando distanza e barricate pur di sentirci sicuri all’interno di quello che oggi appare quasi un ghetto religioso. Anche queste realtà, come le altre, dovranno essere tutelate se vogliamo veramente configurarci a immagine del padre buono che, nella parabola, attende pronto e con speranza il ritorno del figlio, mentre è pronto a venire in soccorso, a spiegare le proprie scelte, anche alla fragilità di chi è stato sempre con lui.
Non si tratta di costruire autostrade, comode e facilmente percorribili, a discapito della famosa strada stretta, quanto più di favorire l’imbocco della stessa, suggerendone la fertilità del percorso e presentandola ai viandanti non come esercizio di annichilimento di sé in ossequio a prescrizioni da sempre stabilite, ma come percorso di scoperta dell’identità di figli, unici e originali: perché davvero le vie del Signore sono infinite.

Il malessere di vita fecondo

In ultimo, per trasmettere pienamente il calore di un padre/madre, dovremmo cercare come Chiesa di offrire a tutti i figli gli strumenti più idonei per preparare l’innato senso religioso all’incontro con Cristo. Si tratta, soprattutto, di aiutarci tra cristiani, praticanti o no, tra credenti o meno, tra credenti e non credenti, di favorire un atteggiamento di ascolto della vita, se possibile cercando e scoprendone la spiritualità, non come ipotesi sillogistica di verità imposte, ma come valorizzazione dell’inquietudine che talora ci permea di sé. Quella malinconia, quel malessere di vita, che ci rendono insoddisfatti, e perciò in ricerca, nei confronti dei più profondi drammi esistenziali. Strumenti che non siano macchinette sputasentenze, aggravati da banalità consolatorie, come l’affermazione di avere un angelo in cielo, che propiniamo con reiterata perfidia, a chi ha perso una persona cara. La sofferenza, che questa persona sta vivendo, la pone già un passo più avanti nella ricerca di una motivazione dell’esistere. Occorre avere il coraggio di andare più a fondo, di penetrare i misteri con la consapevolezza che non sarà facile trovare una risposta adeguata alla fatica che comporta. Con la pazienza, virtù vera, di percorrere ogni passo necessario di questo cammino, così come sta facendo il Padre, con molta più pazienza e meticolosità, verso di noi.