Parole segnaletiche
Idee per una missione in tutto il mondo
di Francesco Grasselli
scrittore
Impressioni e suggerimenti
La mia prima impressione fu una certa sorpresa quando lessi che per la “tre giorni” ci si rifaceva al n. 33 della Redemptoris missio (RM), dove si descrive l’unica missione della Chiesa come suddivisa in tre settori: cura pastorale dei fedeli, nuova evangelizzazione e attività missionaria specifica.
L’enciclica RM è del 1990. Dopo 23 anni questa distinzione, che già Giovanni Paolo II dava come non assoluta, è ancora valida? Direi che nella pratica può ancora servire, ma con alcune attenzioni, che cercherò di illustrare brevemente:
a) Questa distinzione non va fatta a livello geografico, come se alcuni paesi o continenti dovessero essere oggetto di cura pastorale, altri di nuova evangelizzazione e altri ancora di missio ad gentes. Non è assolutamente così. In ogni parte del mondo, dovunque c’è almeno una comunità cristiana, ci deve essere cura pastorale, nuova evangelizzazione e missio ad gentes, anche se in proporzioni e con modalità che cambiano da luogo a luogo. Per esempio, l’Italia è allo stesso tempo un paese di cura pastorale, di nuova evangelizzazione e di missio ad gentes, così come
b) Tutta
Deve svilupparsi oggi - e il concilio ecumenico Vaticano II ci ha già detto come - un grande movimento, che chiamerei neo-francescano, in tutto il mondo. È la risposta ecclesiale alla globalizzazione, che sta avvenendo capeggiata dal “màmmon”, il dio pagano del profitto e del consumismo. Ed è anche la risposta alla pesantezza dell’istituzione ecclesiastica e alle sue contaminazioni mondane.
c) Fra i tre suddetti momenti della missione della Chiesa (cura pastorale, nuova evangelizzazione e missio ad gentes) non c’è separazione, ma una correlazione che si fa sempre più stretta: tutta la cura pastorale deve mirare alla nuova evangelizzazione (cioè al ritorno al Vangelo, vissuto e proclamato) e tutta la comunità cristiana “rievangelizzata” deve assumere l’impegno della missio ad gentes.
La missio ad gentes
Il “racconto” della missione da chi l’ha vissuta e la vive quotidianamente - in situazioni molto diverse, dalla Turchia all’Etiopia, dalla Repubblica Centrafricana alla Georgia - colpisce per la concretezza (i missionari, vivendo situazioni di emergenza, sono molto pratici!) e anche la speranza.
Per riflettere su queste esperienze, e su tante altre che
Fraternità
Parola, che non poteva mancare in un ambiente francescano. Francesco ringraziava il Signore per avergli concesso “una moltitudine di fratelli”. Sentivo il lamento di chi diceva che oggi non è più così, specialmente in missione. “Mancano i numeri” per fare ovunque delle piccole fraternità che siano segno e strumento, “ovverossia sacramento”, della presenza del Signore e di fecondità apostolica. Si è parlato anche di una fraternità vissuta “a distanza”, a livello di provincia e fra la provincia dell’Emilia-Romagna e le missioni che ad essa sono legate. Io direi che bisogna insistere sulla fraternità “locale”, “effettiva”, anche quando è difficile, per diversi motivi, non solo di numero. E quando non si può fare con i propri confratelli, la si faccia con alcuni cristiani del posto, con i laici o con membri di altre famiglie religiose. Oggi sta crescendo l’idea di “fraternità missionarie” fra preti e laici, alcuni stranieri e altri autoctoni. Conosco diverse di queste fraternità, costituite da un prete, una o due famiglie e magari qualche religiosa. Può funzionare? Mi sembra che occorre studiare un metodo, non andare all’avventura. Le difficoltà aumentano. Ma soprattutto occorre avere uno spirito e lo spirito è quello di chi vive anzitutto la “fraternità universale”. Costruite “fraternità” là dove siete, meglio se con dei confratelli, ma anche con qualche cristiano, qualche musulmano o qualcuno che sta ancora cercando Dio… Vivete la “fraternità”, anche in tutte le sue debolezze, sapendo che è il primo seme del regno di Dio, la prima piccola “eucaristia”.
Ascolto
La missione comincia dall’ascolto. Un tempo non era così. Se si eccettuano alcuni grandi, fra cui san Francesco, Matteo Ricci, il Valignano, Roberto de Nobili…, la missione cominciava con la distruzione: tutto era opera del demonio e bisognava fare tabula rasa degli idoli, dei riti, dei costumi… L’intenzione era buona, quella di annunciare Gesù Cristo, ma il metodo non era quello della predicazione evangelica. Poi tutto è cambiato, specialmente con il concilio Vaticano II.
Il decreto conciliare sull’attività missionaria della Chiesa recita “
Dovunque vadano i missionari di Cristo, lo Spirito Santo li ha preceduti, da sempre, e ha lavorato nascostamente nelle persone, nelle culture, nelle religioni. Non è facile vedere subito l’opera dello Spirito, ma c’è stata e c’è. Appaiono a occhio nudo le “magagne”, i limiti… e allora c’è la tentazione di giudicare tutto negativamente, in maniera sbrigativa. Da quanti vecchi missionari ho sentito dire che i cinesi sono… indolenti, non hanno voglia di fare niente! Lo ripeterebbero oggi? Lo stesso si sente dire ancora oggi degli africani… Lo ripeteremo domani?
Le premesse o fondamenta che lo Spirito Santo ha posto all’annuncio del Vangelo sono quasi sempre nascoste, coperte da fango o sabbia o terriccio. Occorre avere la pazienza di cercare, di scavare... La prima fase dell’evangelizzazione consiste in questo: nel cercare dei punti di appoggio nelle persone, nelle tradizioni, nella religiosità che ci troviamo davanti. Altrimenti si rischia di costruire superficialmente. Ecco, allora, l’inizio dell’evangelizzazione: ascoltare, studiare, discernere… Quanto bene hanno fatto i missionari che con lunga pazienza sono penetrati nella lingua, nei costumi, nella mentalità della loro gente e hanno cercato di condividere tutto quello che era condivisibile del loro popolo!
Dialogo
Dall’ascolto al dialogo il passo è breve. Ho sentito oggi parlare di dialogo con i cristiani di altre chiese o confessioni; con i musulmani; con le religioni tradizionali dell’Africa… Si capisce che il clima è molto cambiato rispetto al passato, anche se le difficoltà restano molte (si pensi solo alla difficoltà di dialogare con i musulmani in certi territori o anche con gli ortodossi o gli evangelicali in altri!). Ma il dialogo non è un optional o una moda postconciliare. “L’annuncio e il dialogo, ciascuno nel proprio ambito, sono ambedue considerati come elementi componenti e forme autentiche dell’unica missione evangelizzatrice della Chiesa” (Dialogo e Annuncio, Pont. Consiglio per il Dialogo interreligioso e Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, 1991).
Alcuni di voi hanno detto che il primo dialogo è quello della vita: lo stare insieme, il condividere i problemi, le sofferenze e le gioie del popolo. Molto giusto, ma direi che c’è qualche cosa che viene prima, ed è l’attitudine dialogica che dobbiamo adottare nella nostra vita. Con tutti, anche con i cristiani cattolici che hanno posizioni ecclesiali diverse dalle nostre, anche con i non credenti…
Noi non siamo stati formati al dialogo, piuttosto alla diatriba e all’apologia. Anche oggi manca nei seminari e negli studentati religiosi una concreta iniziazione al metodo dialogico, ma più ancora a quell’atteggiamento di ascolto dell’altro, di interesse per ciò che egli afferma, che è indispensabile premessa al “saper dialogare”.
Annuncio
Il recente “Vademecum del Centro Missionario Diocesano”, promulgato da Missio lo scorso anno (penso che i vostri Centri missionari lo conoscano già, ma invito ogni vostra comunità a leggerlo e studiarlo), pone l’annuncio al primo posto fra i “temi strategici” della missione. Paolo VI nella Evangelii nuntiandi insisteva molto sul fatto che non ci si può fermare alla testimonianza e al dialogo. Queste sono vie essenziali della missione, ma il culmine dell’evangelizzazione e il suo scopo primario è l’annuncio del regno di Dio. “…anche la più bella testimonianza si rivelerà a lungo impotente, se non è illuminata, giustificata - ciò che Pietro chiamava «dare le ragioni della propria speranza» - esplicitata da un annuncio chiaro e inequivocabile del Signore Gesù.
Ciò detto, bisogna fare attenzione a non confondere l’annuncio con la volontà di proselitismo. Grande sapienza e visione anticipatrice mostra san Francesco: “I frati che vanno fra gli infedeli possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti né dispute, ma siano soggetti a ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando vedranno che piace al Signore, annuncino
Cultura
La sorgente ultima della missione è espressa dall’evangelista Giovanni con queste parole: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio suo, l’Amato… perché il mondo sia salvato per mezzo di Lui” (Gv 3,16-17). Questo amore tenero e forte di Dio, amore di Padre, amore di Madre, manifestato a noi in Cristo, nel suo mistero pasquale, è stato diffuso nel nostro cuore dallo Spirito Santo fin dal Battesimo, cosicché noi non amiamo più con il nostro cuore, ma con il cuore di Dio. E questo cuore palpita per ogni creatura, ma vista nell’armonia del tutto. È questo il mondo o cosmos (ordine, armonia) di cui parla Giovanni.
Richiamo questo principio ispiratore di tutta la missione della Chiesa a proposito della missio ad gentes, perché non si può essere missionari autentici in nessuna parte della terra (e nonostante ogni sacrificio fatto per andare e restare in territorio “straniero”) se non si ama quel territorio, quel popolo, quella cultura…
Fra tanti missionari innamorati della loro gente, ne ho incontrati anche alcuni che non facevano che parlare male dei gruppi che erano chiamati a evangelizzare, dei loro costumi, delle loro pratiche religiose e sociali… Quei missionari non erano autentici, non andavano più in nome di Dio e con il cuore di Dio. Ora, è chiaro che ogni popolo ha i suoi limiti e i suoi difetti, i suoi peccati e i suoi lati oscuri. Ma questo non ha impedito a Gesù di amarlo e di redimerlo. Bisogna a volte, per dovere pastorale, denunciare e correggere certi limiti della tradizione; si deve anche “essere cattivi” e rimproverare per certi peccati e vizi delle persone... San Paolo lo faceva! Ma deve essere sempre il rimprovero dato da un padre, da una madre, che sono dispiaciuti, addolorati e che continuano ad amare perdutamente il figlio che sono obbligati a punire.
Sotto la voce “cultura” è stato posto anche il tema, così attuale, della inculturazione della fede. Compito delicato, difficile, che in ultima istanza appartiene ai cristiani e ai pastori autoctoni. Il missionario deve però prepararli e avviarli in quel cammino. Richiamo ancora Paolo VI: “Le Chiese particolari profondamente amalgamate non solo con le persone, ma anche con le aspirazioni, le ricchezze e i limiti, i modi di pregare, di amare, di considerare la vita e il mondo, che contrassegnano un determinato ambito umano, hanno il compito di assimilare l’essenziale del messaggio evangelico, di trasfonderlo, senza la minima alterazione della sua verità fondamentale, nel linguaggio compreso da questi uomini e quindi di annunziarlo nel medesimo linguaggio” Evangelii nuntiandi, n. 63). La cultura è il modo di pensare, di agire, di vivere di un popolo (mangiare è natura - si dice in sociologia -, mangiare con le posate o con gli stecchini è cultura!). Se la fede non è “inculturata”, cioè non viene calata nel modo di pensare, di agire e di vivere, rimane in superficie, come una sovrastruttura, e non scende nelle radici delle persone e dei popoli.
Il cammino di inculturazione, però, deve avvenire lentamente; non bisogna essere precipitosi. Il missionario “straniero” deve lasciare man mano lo spazio ai locali, alla loro creatività, al loro genio culturale, pur esercitando una certa vigilanza, perché il locale sia coniugato con l’universale e il messaggio di Gesù Cristo rimanga integro.
Papa Francesco ci sta oggi insegnando, con le sue parole e i suoi gesti, un nuovo “catechismo della missione”. Tutto parte dall’amore, “un amore non sdolcinato”, dice lui, un amore che passa per la croce. L’amore è quello di Dio, che va verso tutti, ma va di preferenza verso le periferie, là dove c’è più sofferenza, più povertà, più solitudine. Purtroppo le nostre parrocchie, i nostri conventi, le nostre famiglie non sono “periferie”: siamo quasi sempre “benestanti”… E allora dobbiamo uscire. Cura pastorale, nuova evangelizzazione, missione ad gentes si possono raccogliere in questo imperativo comune: uscire. San Francesco ebbe anche questa intuizione: dal monastero o dall’eremo alla peregrinatio, all’andar per il mondo. Andare a guardare, a toccare le ferite del mondo e prenderle un po’, almeno un po’, sulle proprie spalle, potendo dire allora, ma solo allora, che il Signore le ha prese già tutte su di sé.
E le ha guarite!