Rubrica in Convento 03 Fioretto 01Fioretti cappuccini


Come frate corpo-asino combatteva le proprie tentazioni


Era finalmente giunto il giorno sospirato in cui, al termine del ginnasio, si era ammessi al Noviziato. Quante volte ci era stato assicurato che sarebbe stato l’anno più bello della vita.

Avevamo ascoltato tanti graziosi episodi di semplicità francescana, di pasti da prendere in ginocchio, di letti costituiti di due cavalletti di legno su cui erano posate delle assi e un pagliericcio, di freddo da sopportare con gioia, di piedi scalzi anche d’inverno, ma ci era anche stato dato per certo un cuore sempre sufficientemente caldo, tale da permetterci di sperimentare la perfetta letizia di quelle mortificazioni. Ebbene quel giorno era venuto. La sera stessa in cui giungemmo nel noviziato di Cesena vi fu la vestizione, in cui abbandonammo pantaloni e scarpe per essere rivestiti dell’abito cappuccino, con tanto di pesante corona del rosario appesa al cordone, e per calzare i tipici sandali frateschi. Il giorno dopo ci attendeva la «chierica», l’addio alla nostra capigliatura, allora folta e nera. Ci siamo ritrovati rapati a zero, con una strettissima striscia di corti capelli, la «chierica» appunto, a mo’ di corona attorno alla testa, quale simbolo della corona di spine di Gesù. In compenso dovevamo lasciare crescere i pochi peli che già si affacciavano timidamente sul volto, la «venerabilis barba capuccinorum».

Solo allora ci rendemmo pienamente conto di quanto fosse diversa la vita di novizi da quella di seminaristi. Silenzio a tavola, rotto sola dalla lettura di un libro edificante; preghiera dell’Ufficio divino, che scandiva le ore di tutta la giornata e anche della notte; solo due i momenti di ricreazione, dopo i pasti principali, in cui l’unico svago era quello di poter parlare tra noi; poi i tempi del silenzio «rigoroso», nel quale si doveva udire unicamente il battito delle antiche pendole sparse un po’ dovunque; e infine gli occhi sempre bassi secondo il motto del santo cappuccino Felice da Cantalice: «Occhi a terra, cuore in cielo, corona in mano». Sì, il noviziato si dimostrava un totale capovolgimento di vita. Eppure, anche se vestiti da fraticelli, avevamo ancora ormoni nel corpo così violenti da far esplodere chiesa e convento, ma ci era stato garantito che con il trascorrere dei giorni e con la «disciplina» tutto si sarebbe acquietato.

Ah, la disciplina! Fu la sorpresa più grossa. Non era passato nemmeno un giorno che il padre Maestro ci mostrò strane catenelle di ferro, che, al vederle, destarono in noi un presentimento non proprio favorevole. E tale si rivelò quando ci spiegò che quegli aggeggi erano «discipline», e che per «disciplina» non intendeva tanto un severo controllo sul comportamento, quanto un oggetto in uso da tempo immemorabile tra i frati per giungere alla santità. Forse anche il padre Maestro avvertiva un certo disagio nel parlarne. E infatti la prese molto alla larga. Ci parlò di Gesù flagellato prima di essere condotto alla croce, ci portò l’esempio di tanti santi che usavano flagellarsi per reprimere le tentazioni della carne e per domare frate corpo, e ci assicurò che, imitandoli, il demonio sarebbe stato inesorabilmente messo in fuga. Soprattutto ci portò la testimonianza di san Francesco, che chiamava il corpo «frate asino», da percuotere «con frequenti battiture e sostentare con foraggio di poco prezzo» (San Bonaventura, Legenda maior in FF 1093). Noi ascoltavamo quasi senza respirare, e, parola dopo parola, con l’entusiasmo dei neofiti ci sentivamo sempre più pronti a scalare la montagna della santità.

Rubrica in Convento 04 Fioretto 02La «disciplina» era fatta da una grossa anella in cui si infilava un dito perché non sfuggisse di mano, e poi da una catenella di ferro, che terminava con un supporto da cui pendeva un insieme di catenelle corte e alquanto più consistenti. Se «disciplina» era il suo nome, «fare la disciplina» o «disciplinarsi» significava usare quello strumento su se stessi quale medicina contro gli attacchi delle passioni o per prevenirle. La faccenda più scabrosa si presentò quando il padre Maestro si trovò a descrivere la modalità di come usarla. Anche qui la prese alla larga. Noi ci aspettavamo che egli ci dicesse che ci si dovesse flagellare sulla schiena. Niente di tutto questo: i polmoni erano un organo troppo delicato e l’esperienza aveva insegnato che bisognava rispettare quella preziosa zona del corpo. Dove flagellarsi allora? Il padre Maestro svelò il mistero: occorreva sollevare l’abito dalla parte dietro, abbassarsi posteriormente i panni di gamba e con un andamento ritmico percuotersi i glutei. Immaginarsi la nostra meraviglia e anche un po’ di… perplessità. Soprattutto perché quella pratica, da effettuarsi il lunedì, il mercoledì e il venerdì di ogni settimana, si doveva espletare nel coro della chiesa, insieme agli altri frati. Niente paura però, perché le luci sarebbero state tutte spente e le finestre che davano all’esterno ben chiuse. E così al ritmo del «Miserere mei, Deus» e per tutto il tempo della durata di questo lungo salmo penitenziale recitato lentamente e a voce alta per coprire il rumore dei colpi, ognuno si doveva percuotere quella parte del corpo fatta di «carne matta». Naturalmente la violenza e l’intensità delle battiture erano lasciate al fervore dei singoli o alla virulenza delle tentazioni della carne. Si poteva fare la disciplina anche privatamente nella propria cella, ma questo era lasciato all’iniziativa personale, a meno che non fosse una «punizione» del padre Maestro a correzione di un comportamento non proprio esemplare di un novizio.

Ci sarebbe voluto ben altro per reprimere in giovani quali eravamo, nel pieno dell’esuberanza post-adolescenziale, le passioni che scuotevano «frate asino». Tuttavia la disciplina si dimostrò occasione di innocui scherzi. Durante il buio in cui si faceva la disciplina, si è verificato che un novizio buontempone liberasse delle lucciole, catturate la sera prima, o che “distrattamente” urtasse contro l’interruttore della luce. Non si era ancora accesa la luce che in un lampo tutti gli abiti frateschi erano già al loro posto, senza alcuna offesa al pudore personale. Vi fu anche chi, in luogo di percuotere se stesso, flagellava chi gli stava davanti, tirando colpi alla cieca, senza che il malcapitato potesse protestare, perché il buio nascondeva la mano del colpevole.

Cara e vecchia disciplina, non hai mai fatto male a nessuno, e hai lasciato che le passioni gorgogliassero indisturbate nel corpo dei flagellanti. Eri sempre a portata di mano come amica della vita cappuccina e hai accompagnato con simpatia tanti frati nella loro ascesi spirituale. Hai toccato tante volte le pudiche parti del corpo di frati giovani e meno giovani e hai sempre chiuso gli occhi per non vedere e per non fare troppo male. Oggi rimani appesa, ormai dimenticata, al muro della cella di frati che, quando ti hanno conosciuto, avevano i capelli neri, ora però divenuti bianchi, a testimonianza che il tempo passa per tutti, quel tempo di cui, come una pendola, segnavi il ritmo sul sedere dei frati.