Non capita tutti i giorni di incontrare un centenario, una persona nata cento anni fa. Vi presentiamo qui fra Severino, il primo frate cappuccino della provincia dell’Emilia-Romagna a raggiungere questo traguardo. Fioretti cappuccini parla di una pratica penitenziale che può apparire del millennio scorso, e che invece era in uso fino a soli cinquant’anni fa.

Nazzareno Zanni 

 

Tante cose da raccontare


Fra Severino Davoli, il primo cappuccino centenario dell’Emilia-Romagna

 

Rubrica in Convento 01 Frate Severino 01 (Ivano Puccetti)Debole di costituzione

Cento anni fa, l’11 novembre 1913, nasceva Riccardo, che, a differenza del più noto «Cuor di Leone», non avrà una vita turbolenta, caratterizzata da fughe rocambolesche per terra e per mare, lunghe prigionie e improvvisi ritorni. No, il nostro Riccardo da quando, a 18 anni, fece la sua entrata nel severo e tranquillo mondo dei cappuccini a Fidenza, si è fermato per oltre 70 anni sempre in questo luogo. Qui, con il nuovo nome di frate Severino, combatterà un’unica battaglia per tutta la vita: lavoro, lavoro e ancora lavoro.

Come fratello laico ha sempre recitato i paternostri prescritti dalla Regola e forse mai ha ascoltato con i suoi orecchi quanto è scritto nel salmo 90: «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti; passano presto e noi ci dileguiamo» (Sal 90,10), recitato un tempo in latino dai sacerdoti, ma latino o non latino, lui ha contraddetto quella previsione: è il primo Cappuccino lungo tutta la storia fratesca dell’Emilia-Romagna a raggiungere il traguardo dei cento anni, facendosi beffe del tempo che inesorabilmente passava. Quando nei primi anni ’30 dovette presentarsi alla visita militare per l’eventuale servizio di leva, da cui tuttavia per il Concordato era dispensato, fu dichiarato per ben tre volte «di costituzione debole» e infine riformato; ma sono proprio questi presunti deboli di costituzione che battono per lunghezza di vita quanti si vantano di possedere una corporatura sana e robusta.

Inizialmente fu addetto alla cucina per contribuire ad assicurare un piatto di minestra calda sulla tavola dei frati. In quegli anni difficili, dal ’30 fino al dopoguerra, occorreva adattarsi a mettere sotto i denti qualunque cosa per cavarsi la fame, ed era sconsigliato mettere il naso in cucina per controllare quello che bolliva nella pentola. Il pranzo era una sorpresa per tutti, anche per merito dell’inventiva dei frati cuochi. Frate Severino, però, non limitava le sue energie solo alla stufa e alle pentole, ma le spendeva in ogni dove: si portava fuori convento per la questua, coltivava l’orto, curava il giardino per abbellire di fiori la chiesa, allevava conigli e galline, e si occupava persino di dare da mangiare all’unico, ma prezioso, maiale del convento, animale che si accontentava di quello che rimaneva dalla mensa dei frati, ma che poi accompagnava, con le calorie del suo lardo e della sua carne trasformata in salami, i mesi invernali del convento. Faceva anche da portinaio, che, come si usava allora, era addetto a distribuire una scodella di minestra ai poveri che si presentavano alla porta del convento ogni giorno. Come compagno aveva un cane, che lo seguiva dovunque, perché aveva annusato che l’amicizia con chi trafficava in cucina portava sempre dei vantaggi. Nel convento c’era anche un asino, ma a quello non pensava, perché lo accudiva già il frate impegnato a tempo pieno nella questua in campagna. D’altronde frate Severino dall’asino non poteva cavare nulla da mettere sotto i denti, e per di più gli stava alla larga per non incappare nelle carezze dei suoi zoccoli posteriori.

Rubrica in Convento 02 Frate Severino 02Il severo istruttore dei novizi

Per la sua duttilità e laboriosità, essendo Fidenza sede del noviziato, il padre Maestro gli affidava i novizi chierici e non chierici perché li introducesse negli abituali lavori della casa. Quando poi, al termine del noviziato, giungeva il momento della votazione sulla loro ammissione alla professione dei voti, la cosa si faceva seria. Su tale ammissione era richiesto il parere della comunità: ogni frate doveva deporre un fagiolo bianco o nero per esprimere la propria valutazione positiva o negativa su ogni candidato. Frate Severino non era di manica troppo larga e nella sua mano più spesso rimaneva il fagiolo bianco. Forse oggi si giudicherebbe eccessiva tale severità, ma a quel tempo, quando le vocazioni abbondavano, occorreva saper distinguere accuratamente chi dava speranza di continuità da chi avrebbe gettato poco dopo il saio alle ortiche. E lui se ne intendeva bene, avendoli avuti a fianco per tutto il corso di noviziato.

Nei conventi fino ai primi anni del dopoguerra si produceva tutto quello che necessitava alla mensa dei frati, in particolare vino e pane. Quante volte frate Severino per la sua comunità ha impastato e infornato il pane settimanale, fragrante e profumato, pronto ogni venerdì mattina. Ma anche il pane per i poveri, che erano tanti. Per questi ultimi preparava un pane integrale, una ricercatezza oggi, ma allora una vera necessità, per non disperdere nulla di quanto la madre terra offriva. Inoltre anche la cantina era territorio di sua competenza: vino povero ma sincero, fatto di uve di ogni qualità, bianche e nere senza distinzione, come le portava a casa il frate questuante di campagna. Insomma frate Severino era impegnato in tutti i lavori che lo rendevano un uomo prezioso, amato dai frati e dalla gente. Faceva ogni cosa con semplicità, sempre disponibile e instancabile.


Guerre e medaglie

Poco prima dello scoppio della guerra, pur senza sottrarsi alle necessità della vita quotidiana del convento, si diede soprattutto alla questua per le vie della città, intuendo che sarebbero venuti anni di dura fame per i frati e per i poveri. A Fidenza vi era già un frate questuante, frate Savino da Podenzano, che con un mulo girava per le campagne in cerca della provvidenza, ma questi, ormai anziano, lasciò ben presto tutto il peso della questua sulle spalle di frate Severino, che cominciò a girare anche per le campagne. Raccoglieva qualsiasi cosa che gli venisse offerta: grano, uva, uova, legna, fieno e anche animali vivi da macellare in convento. Quanto ben di Dio ha portato in convento per i frati e per i poveri! Solo quando l’età cominciò a pesargli sulle spalle, si vide costretto a limitare il suo raggio di azione quasi solo alla città, visitando ogni famiglia e portando in ogni casa il calendario cappuccino, oggi chiamato «Frate Tempo». Era accolto da tutti con simpatia e gioia, tanto da divenire un elemento indimenticabile del paesaggio fidentino, da chiunque conosciuto.

Uno dei tanti superiori che ha avuto, preoccupato dell’età ormai avanzata di frate Severino, ormai ultraottantenne, cominciò a pensare anche al suo funerale, in quanto il guardiano di un convento deve prevedere anche questa eventualità per i frati più anziani e provvedere di conseguenza. «Come farò? - si chiedeva quel superiore -. La chiesa non sarà sufficiente ad accogliere tutta la gente che verrà. Dovremo fare il suo funerale in duomo». Ma frate Severino, nonostante gli acciacchi e gli anni che scorrevano via come i grani del rosario che aveva sempre in mano, non cedeva, e assistette addirittura al funerale di quel suo superiore troppo precipitoso.

In occasione del settantesimo anno di età e cinquantesimo della sua professione religiosa, a ricordo dell’aiuto prestato alla popolazione dopo il bombardamento bellico della città, durante il quale si era visto frate Severino con altri confratelli scavare tra le macerie per soccorrere i feriti e sgombrare le strade, e per l’opera continua di assistenza i poveri alla porta del convento, il comune di Fidenza conferì ai Cappuccini, nella persona di frate Severino, la medaglia d’oro. Un riconoscimento, che non impedì al nostro frate di continuare a lavorare con la medesima determinazione di prima.

Ma gli anni pesavano sempre più, e frate Severino cominciò a frequentare l’infermeria provinciale di Reggio Emilia, dapprima come ospite estivo e invernale, perché a Fidenza l’estate era torrida e l’inverno rigido. Solo dopo il primo decennio di questo millennio, vi si è stabilito come membro definitivo. Qui ha lottato spalla a spalla con un altro confratello, frate Ugolino Biondi, di qualche mese più anziano, per giungere a tagliare il nastro dell’arrivo ai cento anni. L’ha avuta vinta lui, ed è stato lui il primo frate centenario festeggiato dai Cappuccini dell’Emilia-Romagna. Vi saranno ancora altri anni? A lui raccomandiamo solo di non mettere limiti alla Provvidenza.