Castrucci 01Il tempo all’ennesima potenza


Il dono prezioso da restituire a Dio nella preghiera, nel lavoro e nelle fraternità


di Nella Letizia Castrucci

abbadessa delle clarisse di Rimini


«Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti e il loro agitarsi è fatica e delusione; passano presto e noi voliamo via» (Sal 90,10).

In quella grande meditazione sul tempo che è il Salmo 90, l’orante biblico descrive la caducità dell’uomo davanti all’immensità temporale di Dio, ai cui occhi «mille anni sono come il giorno di ieri che è passato», sottolineando con amaro pessimismo che, anche se l’uomo vivesse fino a ottant’anni, il suo è per lo più un tempo infelice, di cui non rimane traccia.

Non è in quest’ottica cronologica che va computata la vita di Francesco, ma, se mi si permette un neologismo, in quella kairologica, cioè del kairos-tempo di grazia, che è giunto alla pienezza con l’incarnazione del Verbo (cf. Gal 4,4).

Il Poverello, infatti, non può essere certo considerato un uomo “robusto” secondo i criteri veterotestamentarii, dal momento che ha vissuto appena quarantaquattro anni, di cui meno della metà spesi nella sequela evangelica. Eppure, quei diciotto anni seguiti alla sua conversione, non solo hanno lasciato una traccia nella società e nella Chiesa del Duecento, ma hanno attraversato i secoli con la loro feconda operosità e santità, che il mondo tuttora gli riconosce.

Lo spartiacque tra kronos e kairos nel tempo di Francesco è segnato dall’incontro con il Crocifisso di San Damiano e dal mandato da lui ricevuto di «riparare la sua casa tutta in rovina» (1Cel 10: FF 593), a cui egli aderisce senza indugio, «concentrandosi tutto su questo invito», pur non comprendendone da subito appieno la portata. Da quel momento è come se il suo tempo non sia stato più quello delle ventiquattro ore giornaliere, ma si sia moltiplicato all’ennesima potenza, vissuto nella logica del dono, da non trattenere neanche in minima parte, ma da restituire tutto «al Signore Dio altissimo e sommo al quale appartengono tutti i beni e dal quale procede ogni bene» (cf. Rnb 17: FF 49).

Il tempo è un bene di Dio, e in quanto tale Francesco lo declina con la terminologia del “rendere/restituire”, tipica del suo vocabolario, secondo tre direttrici fondamentali: la preghiera, il lavoro e la fraternità.

Il tempo restituito nella preghiera

Castrucci 02«Quando il servo di Dio nella preghiera è visitato dal Signore con qualche nuova consolazione, deve, prima di terminare, alzare gli occhi al cielo e dire al Signore, a mani giunte: “Tu, o Signore, hai mandato dal cielo questa dolce consolazione a me, indegno peccatore: io te la restituisco, affinché tu me la metta in serbo, perché io sono un ladro del tuo tesoro”» (2Cel 99: FF 686).

Per Francesco non esiste un tempo che non sia preghiera: egli, infatti, «trascorreva tutto il suo tempo in santo raccoglimento», così da poter essere definito «non tanto un uomo che pregava, quanto piuttosto egli stesso tutto trasformato in preghiera vivente» (cf. 2Cel 94-95: FF 681-682).

Pregare non è quindi riempire il tempo di preghiere, ma celebrare il tempo come luogo dove fare l’esperienza di essere raggiunti dall’amore di Dio: amore che va a lui restituito nella lode e nel rendimento di grazie diuturni.

E il Poverello evidenzia la priorità della preghiera con un suo personalissimo calendario liturgico, costellato da cinque quaresime, per vivere più intensamente i misteri della salvezza. L’uomo “tutto apostolico”, come lo definisce un’antifona dei primi vespri della sua solennità, dedicava, dunque, duecento dei trecentosessantacinque giorni dell’anno all’incontro prolungato con il suo Sposo e Signore. E facendo un rapido calcolo scopriamo che, dei suoi diciotto anni di apostolato, quasi dieci sono stati riservati in modo esclusivo all’orazione e alla contemplazione, cioè ad un tempo che in molti, talora anche nella Chiesa, fanno fatica a definire apostolato, ritenendo che la preghiera semmai tolga tempo all’apostolato… Ma Francesco ha potuto essere l’evangelizzatore e l’uomo di pace che è stato proprio in virtù di quei dieci anni “sprecati” nel rapporto intimo con quel Dio che gli ha dilatato il tempo, il cuore e le forze secondo la misura del suo amore, rendendolo «il più somigliante a Cristo tra gli uomini» come lo definisce il monaco-scrittore Thomas Merton.

Il tempo restituito nel lavoro

«Quei frati ai quali il Signore ha concesso la grazia di lavorare, lavorino con fedeltà e con devozione, così che allontanato l’ozio, nemico dell’anima, non spengano lo spirito della santa orazione e devozione al quale devono servire tutte le altre cose temporali» (Rb V, 1-2: FF 88)

Il lavoro per Francesco è espressione particolare della somiglianza dell’uomo con Dio creatore, che «opera sempre» (cf. Gv 5,17) e condivisione della condizione dei poveri; ed è grazia perché è frutto dell’abilità che riceviamo come dono gratuito di Dio. Come ogni altra grazia, quindi, deve essere oggetto di restituzione a Dio: non si spiegherebbe, infatti, il richiamo alla fedeltà e alla devozione, se non si trattasse di una realtà che rimanda a Dio e che a Dio deve essere dedicata totalmente.

Lavoro e preghiera non sono così due modalità di vivere il tempo contrapposte, ma complementari, poiché si completano e si alimentano vicendevolmente in un circolo vitale: la preghiera ispira la volontà e il gusto di lavorare con fedeltà, e a sua volta l’impegno del lavoro tiene acceso il desiderio della preghiera.

Il tempo restituito nella fraternità

L’operosità della vita di Francesco ha un corollario importante nella fraternità, vissuta anzitutto con i suoi frati, con Chiara e le sue sorelle, con ogni uomo e con tutto il creato.

Francesco ha la consapevolezza che i fratelli sono un dono del Signore (cf. Test 14: FF 116), un dono inaspettato, tanto che, quando si unì a lui il primo frate, provò una gioia straordinaria, perché «gli parve che il Signore avesse cura di lui, donandogli un compagno di cui aveva bisogno e un amico fedele» (cf. 1Cel 24: FF 361).

E se Dio si prende cura di Francesco dandogli dei fratelli, Francesco sente di doversi prendere cura dei suoi fratelli, sia dal punto di vista materiale che spirituale, donando loro la sua premura materna e il suo esempio di fratello e di servo, vivendo il suo tempo circondato dalla fraternità, almeno di un frate. E ai suoi fratelli affida come ultimo messaggio il desiderio di non perdere un attimo del suo tempo, neanche l’ultimo, «quando ormai confitto nella carne e nello spirito, con Cristo sulla croce, dice: “Incominciamo, fratelli, a servire il Signore Dio, perché finora poco abbiamo progredito”» (cf. LegM XIV, 1: FF 1237).