Biguzzi 01L’esempio del vogatore

Verso il futuro con la certezza della Pasqua di Cristo

di Giancarlo Biguzzi

docente di Nuovo Testamento al Pontificio Istituto Biblico

 

Tempo variabile
Il tema dello scorrere del tempo ha prodotto un’ampia letteratura aforistica. C’è chi, come Virgilio nelle Georgiche, ha espresso lapidariamente la corsa inarrestabile del tempo (Fugit irreparabile tempus), e a lui fanno eco le scritte sui campanili di una volta (Ecce, fugit hora). I nostalgici del passato (laudatores temporis acti) hanno piagnucolato sulla malvagità dei tempi in cui si trovavano a vivere (tempora mala currunt) aggiungendo addirittura che il peggio non è mai morto (sed peiora parantur!). Ogni generazione poi è costernata per le cose che non si sarebbero mai viste precedentemente (o tempora! o mores!).

C’è invece chi onestamente ha riconosciuto i benefici del tempo fuggente perché il tempo «è come un pettine, che scioglie ogni nodo». Eschilo diceva che «il tempo istruisce l’uomo» e Sofocle che «il tempo tutto vede» e, quindi, alla lunga «rivela l’uomo giusto». Menandro poi riconosceva che da un lato «il tempo tutto toglie all’uomo» ma, dall’altro, «rende più certo il discernimento», e così «si dimostra medico». Menandro, che deve avere riflettuto molto sul tema, diceva ancora che «il tempo vaglia gli amici come fa il fuoco con l’oro».

Saggiamente Apollonio di Tiana vedeva il tempo in rapporto alle situazioni soggettive, dicendo: «O vita! misero longa, felici brevis». Dopotutto ognuno sa che le vacanze sono sempre troppo brevi, mentre alle poste, per pagare una multa, le file sono sempre troppo lunghe. Infine, il maestro degli aforisti e il principe dei medici, Ippocrate di Coo, scrive in apertura della sua raccolta di aforismi: «Breve è la vita…», subito aggiungendo le circostanze che la rendono difficile: «l’arte [la sperimentazione medica] invece è lunga, fuggevole è l’occasione, e difficile è il giudizio». Ippocrate è stato ripreso da Seneca (Ars longa, vita brevis) e perfino da Goethe: «Ach Gott! Die Kunst ist lang und kurz unser Leben» (Mio Dio! L’arte è lunga e breve la nostra vita!).

Anche l’autore dell’Apocalisse insiste a molte riprese sulla brevità del tempo. Basti pensare che, in apertura, nello spazio di tre versetti, prima scrive che la rivelazione (apokàlypsis) mandata a noi da Dio attraverso Gesù manifesta «le cose che devono accadere a breve scadenza (tachỳ), da cui “tachicardia” e “tachimetro”)» (1,1) e poi aggiunge che «infatti il tempo è vicino» (1,3).

Per Giovanni anzitutto sono brevi i tempi assegnati agli avversari. Così il Drago, il serpente antico, espulso dal cielo e precipitato verso terra e mare, «è pieno di grande furore, sapendo che gli resta poco tempo (olìgon kairòn)» (12,12). La Bestia, suo complice, ha il permesso di infierire contro i “santi” per un tempo conteggiato: «per quarantadue mesi» (13,5). Di conseguenza, il tempo è breve anche per le vittime dell’ostilità di Drago e Bestia. Quando gli uccisi per la Parola di Dio chiedono a Dio: «Fino a quando indugerai a emettere il tuo giudizio e a ristabilire la giustizia nei confronti degli abitanti della terra [i persecutori]?», la risposta è che devono «pazientare ancora un poco (chrònon mikròn)», finché non si completi il numero dei loro fratelli che devono essere uccisi come loro» (6,9-11).

Biguzzi 02Breve è il tempo vissuto con la fede

Ma se Ippocrate lamentava che la vita fosse breve mentre l’arte (medica) ha bisogno di tempi lunghi, e se Apollonio di Tiana avrebbe voluto per chi è felice una vita lunga così che possa assaporarne le gioie per molti anni, giorno dopo giorno, Giovanni di Patmos rovescia sia l’assunto sia la motivazione. In apertura del libro, per sé e per i suoi interlocutori egli parla di tribolazione: «Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione (thlìpsis)… mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù» (1,9). Ed è evidente che chi è nella difficoltà guarda avanti, al momento in cui essa avrà fine. Per Giovanni quel momento è legato al Signore Gesù. Infatti «lo Spirito e la Sposa [la Chiesa animata dallo Spirito]» grida: «Vieni!», e la dolce, consolante risposta suona: «Sì, vengo presto (tachỳ)!» (22,17.20). Anzi, già poco prima Gesù aveva promesso: «Ecco, io vengo presto (tachỳ), e ho con me la ricompensa» (22,12).

La brevità giovannea del tempo non è dunque da calcolare sul calendario perché è fondata teologicamente, a partire dalla fede e dalla speranza. Per chi ha fede, nel grande scontro tra bene e male il più forte è Dio, e con lui il suo Cristo, così che la certezza della vittoria rende più breve la tribolazione, mentre insopportabile è la pena di cui non si vede la fine. La stessa fiduciosa attesa della meta è anche in un’apocalisse giudaica contemporanea: «Poco manca all’avvento dei tempi. Il secchio è vicino alla cisterna, la nave al porto, la strada alla città, la vita al compimento» (2 Baruc 8,5,10).


Spalle alla meta
Ma è necessaria una precisazione. Noi non guardiamo al futuro con una fede che significa fidarsi senza garanzie: in quel caso, non si sa mai… No! Noi siamo come il rematore (dice Thorleif Boman, uno studioso norvegese). Il rematore volge la schiena alla meta e lo sguardo alla partenza. Noi andiamo verso il futuro della venuta del Cristo ma guardando al passato fondante della sua Pasqua: conquista ormai incontrovertibile, promessa non ingannevole, garanzia totalmente affidabile. Esiodo (seguìto ad esempio da Platone e Ovidio) ha teorizzato la progressiva decadenza dall’età dell’oro a quella dell’argento, giù giù fino all’età barbara del ferro. Al contrario, Democrito di Abdera (seguito da Epicuro e Lucrezio), concepiva la storia come conquista e progresso dell’umanità sotto la spinta del bisogno e della ragione. L’uomo antico comunque tendeva piuttosto ad avvertire il tempo come ciclico (cf. Il mito dell’eterno ritorno di M. Eliade), essendo legato per la propria sopravvivenza al ciclo agricolo delle stagioni, il quale è a sua volta condizionato dal ciclo astronomico di sole e luna.

Noi invece crediamo che la storia sia un continuo decadere (per la nostra infedeltà) e un continuo risorgere (per la sempre nuova misericordiosa iniziativa di Dio) verso la finale età dell’oro, verso cieli nuovi e terra nuova, dove avrà stabile dimora la giustizia (2 Pietro 3,11).

 

Biguzzi 03Segnaliamo il volume:

GIANCARLO BIGUZZI - CARLO BAZZI (a cura di

Cantiere aperto sul Gesù storico

Urbaniana University Press, Roma 2013, pp. 272