Vedere l’unità della Chiesa

Attraverso un progetto artistico vengono presentate le spiritualità delle Chiese orientale e occidentale

a cura di Saverio Orselli
della Redazione di MC

Orselli1Avevamo chiesto ad Alberto Melloni un articolo su “La Chiesa di domani”. Ci ha risposto che è impegnatissimo nell’organizzazione dello scambio culturale “Giotto a Mosca, Rublëv a Firenze”, un evento che avrà certamente un notevole valore per l’ecumenismo, basato sulla conoscenza vicendevole e quindi sulla preparazione della “Chiesa di domani”. Ci ha inviato il materiale, che è poi entrato nel catalogo ufficiale della mostra, autorizzandoci ad utilizzarlo, anche per far conoscere ai lettori questo straordinario evento. Ringraziamo di cuore lui, la Fondazione per le scienze religiose di Bologna ed Enzo Bianchi.

Nell’ambito dell’Anno della cultura Italia-Russia, dal 19 al 21 dicembre 2011 e fino al 19 marzo 2012, a Firenze e a Mosca sarà possibile visitare la mostra “Uno scambio di capolavori dell’arte e della fede - Giotto a Mosca, Rublëv a Firenze”, proposta dalla Fondazione per le scienze religiose di Bologna, una delle più importanti biblioteche al mondo sulla storia del cristianesimo, un’istituzione di ricerca di riconosciuta autorevolezza internazionale, che da tempo collabora sul piano scientifico con le istituzioni accademiche ed ecclesiastiche della Russia.
Lo scambio artistico riguarderà cinque opere di enorme pregio artistico e spirituale, esposte per la prima volta come tali, in contesti così particolari come quelli offerti dal Ministero della cultura della Federazione Russa e dall’Arcidiocesi di Firenze. In mostra alla Galleria Tretyakov andranno due opere di grande significato di Giotto da Bondone e della sua cerchia, conservate all’Opera del Duomo di Firenze e mai esposte fino a oggi in Russia: la Maestà di San Giorgio alla Costa e il Polittico di Santa Reparata. Contemporaneamente verranno esposte nel Battistero di Firenze tre icone fondamentali della storia russa, custodite nella Galleria Tretyakov: l’Odighitria di Pskov, l’Ascensione della Cattedrale di Vladimir e la Crocifissione del Signore della Chiesa della Trinità dal Monastero di Pavel di Obnora.
Lo scambio artistico che lega Firenze e Mosca in questi mesi rappresenta solo l’ultima occasione di scambio culturale che la Fondazione per le scienze religiose di Bologna ha contribuito a sviluppare, nell’ottica di un dialogo che risulta riduttivo definire ecumenico. Basterebbe ricordare la traduzione in russo dei cinque volumi della Storia del concilio Vaticano II diretta da Giuseppe Alberigo. Dall’edizione critica del concilio Niceno II, l’ultimo riconosciuto come ecumenico sia da Oriente sia da Occidente e dal quale discendono le teologie e le dottrine comuni della venerazione per le immagini, è nata l’idea di impreziosire l’anno dello scambio fra Italia e Russia mostrando la diversa interpretazione dell’immagine carnale del Cristo - e dell’idea dell’uomo e della fede che ne deriva - mettendo con ciò in evidenza, tanto culturalmente che spiritualmente, il legame reciproco che unisce i due popoli.

Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose, presenta il significato delle icone.Orselli2

Se il problema di tutta la pittura, di tutta l’arte delle immagini, è in profondità quello di leggere e rappresentare l’invisibile, le icone hanno questa “pretesa”: vogliono vedere l’invisibile, rappresentare il Divino nel suo nascondimento, dare forma a ciò che deve rimanere ineffabile, inconoscibile, ciò che resta indicibile. L’icona obbedisce alla logica che nel quarto Evangelo offre la chiave per penetrare il mistero di Gesù: “Nessuno ha mai visto Dio, ma il Figlio ce ne ha fatto un’esegesi, ce ne ha fatto il racconto” (Gv 1,18). L’icona, fondata sull’evento del Dio che si è fatto uomo, pretende di rappresentare non solo la carne di Gesù, la sua vita tra gli uomini, ma il modo stesso in cui questa carne contiene l’invisibile, contiene Dio, l’energia di

trasfigurazione.
E dove rifulge il volto del Dio ineffabile, là accade la presenza: per questo l’icona accompagna la Parola proclamata e l’Eucaristia celebrata e con esse coopera alla manifestazione dell’immagine del Cristo Signore, all’accadimento della sua presenza. Parola, Eucaristia e Icona costituiscono una vera pericoresi, un’autentica danza di amore della Presenza al cuore della liturgia e quindi della Chiesa. Presenza reale, efficace, presenza che parla, che nutre, che guarda. Sì,

perché non è il credente a guardare l’icona, ma è il volto iconico che guarda il credente e suscita in lui l’esperienza della Presenza. Sono guardato, c’è Qualcuno davanti a me, Qualcuno che fissa lo sguardo su di me e mi ama, Qualcuno che mi chiama per nome. Presenza efficace, trasformante, anzi, trasfigurante, perché Presenza che opera incessantemente e rende il cristiano conforme, somigliantissimo al Cristo da cui prende il nome. Ma nell’icona la Chiesa contempla anche il proprio volto, la propria vocazione a diventare ciò che essa già è nel mistero di Dio: il Corpo di cui Cristo è il capo, le sue membra santificate dallo Spirito, l’annuncio vivente della presenza del Dio amante degli uomini in mezzo alle vicende contraddittorie e dolorose della storia. E se questa immagine non corrisponde al modello, se la comunione tra le Chiese locali è lacerata da discordie e divisioni, se la carità fraterna è contraddetta da ostilità e indifferenza, allora il volto della Chiesa non riflette più quello del suo Signore, è un volto deforme, che ha perduto la vista per riconoscere Dio e i fratelli, incapace di quello sguardo di misericordia e amore che è lo sguardo di Dio (cfr. Ap 3,18).
Se non ci sono comunione e armonia tra le membra del corpo di Cristo, esso appare nella storia e agli uomini come un corpo mostruoso e gravemente infermo: perché ciò che della Chiesa è massimamente visibile, il suo aspetto, la sua forma, la sua bellezza, è proprio la pratica del comandamento nuovo dell’amore, la realtà della comunione».
Ecco allora che diventa urgente e fondamentale ricostruire l’unità. Si tratta di imparare che ciò che unisce è molto di più di ciò che divide, e che il bene grande dell’incontro e della comunione può richiedere la rinuncia a ricchezze non essenziali. Qui la spiritualità di comunione diviene anche ascesi, cioè capacità di discernere e scegliere sempre l’essenziale. Spiritualità di comunione significa infine anche esercizio dell’arte dell’ascolto: non per cercare nell’altro, nell’altra Chiesa, ciò che vi è di più simile, ma per accogliere l’alterità anziché cancellarla. Nell’incontro ecumenico, l’ascolto è condivisione della vita e dei beni spirituali, frequentazione reciproca per imparare i rispettivi idiomi, apprendimento di ciò che può ferire l’altro o essergli irricevibile. Così cadono i pregiudizi, sono sconfitte la paura dell’altro e la tentazione di identificare differenza e divisione; si apre la possibilità di pensare insieme con l’altro la fede e la sua trasmissione, l’evangelizzazione di quel mondo che Dio ha tanto amato da dargli il suo unico Figlio (cfr. Gv 3,16).

 

Il prof. Alberto Melloni, segretario della Fondazione per le scienze religiose di Bologna e curatore dello scambio culturale tra Italia e Russia, ricorda la tormentata storia dei concili e dell’unità delle Chiese, richiamando la lucida testimonianza del teologo domenicano Yves Congar.

Orselli3Congar ha mostrato in modo convincente come sia le grandi stagioni della chiesa sia le sue relazioni con i mondi e le culture discendano da movimenti lenti ma profondi che modificano il paradigma ecclesiologico. La comprensione della Chiesa, infatti, esprime con una evidenza plastica il ridefinirsi di equilibri che decidono non della sua “natura”, ma della sua eloquenza spirituale, che non è lo sfondo muto sul quale si staglia un soggetto immobile, ma l’aria di cui respira il vangelo nel tempo.
È infatti evidente nella storia della ecclesiologia che tutti i grandi linguaggi del pensiero sono stati assunti dal discorso cristiano: quello della natura, del diritto, della poetica. Tutte le grandi cifre simboliche e le stesse figure politiche della storia diventata storia del cristianesimo sono state assorbite dal linguaggio teologico nella ricerca di mediazioni o di assunzioni: dalla “sinfonia” dell’Oriente cristiano alla “potestas” dell’Occidente cristiano, dalla potestà all’autorità, dalla simbologia al cerimoniale, c’è tutta una tavolozza di esperienze e concezioni di cui la riflessione teologica s’è appropriata e che, pur nella loro radicale estraneità rispetto alla narratività evangelica e alla sua possibile normatività, si sono incorporate alla carne della Chiesa, nella sua varietà di tradizioni e confessioni. Eppure è altrettanto evidente in tutta la storia dell’ecclesiologia che i grandi architravi della professione di fede - la confessione di fede trinitaria, l’eucarestia, la sinodalità - sono stati in grado di rimettere in discussione equilibri mentali e dottrinali divenuti obsoleti, e hanno effettivamente riformato quella carnalità, decostruendone e ricostruendone i linguaggi: in un processo nel quale la riforma è una modalità della fedeltà e non il suo contrario.
Se secoli di indifferenza, distanza, intiepidimento teologico hanno prodotto la fatalità della rottura, è nella prossimità fraterna, nella conoscenza e nel risveglio di un’autentica passione teologica per l’altro che si può riavviare un processo di unità.