Mostrare il volto accogliente

Perché i giovani in gruppi e movimenti e i vecchi in chiesa?

di Erio Castellucci
parroco e professore di Ecclesiologia all’ISSR “Sant’Apollinare” di Forlì

Castellucci1Camminare al fianco

Quando l’ineffabile padre Dino mi ha comandato (avete letto bene: non “domandato”…) di scrivere qualche riflessione su questo tema provocatorio, mi sono venute in mente tante cose: ve le trasmetto senza preoccuparmi troppo di metterle in fila per bene e senza pensare a quali reazioni possano provocare… spero almeno che non procurino troppi sbadigli.
Prima di tutto ho pensato alla differenza tra gli innamorati e i coniugi che hanno già trascorso molto tempo assieme. I primi si muovono trainati da un sentimento esaltante, agiscono per attrazione e per passione, vanno dove li porta il cuore. I secondi si muovono più lentamente, sono disincantati e si appellano spesso alla fedeltà e alla volontà per tenere assieme la loro relazione. L’innamoramento è un sentimento tipico dei giovani, mentre la fedeltà alle decisioni assunte è tipico delle persone mature (non mi piace “vecchi”, forse perché ci sto arrivando anch’io…).
I giovani che non interrompono l’esperienza cristiana, dunque, anche a motivo dell’età mantengono per lo più un legame di tipo attrattivo, basato su una sorta di innamoramento e fortemente supportato dal “gruppo”. È difficile che un adolescente o un giovane proseguano il cammino della fede limitandosi ad andare a messa la domenica, senza alcun legame con un gruppo o un movimento che ravvivi continuamente la spinta all’adesione e all’impegno. Per un anziano, invece, è meno importante il legame vitale con un gruppo e non è decisiva l’attrazione, sostituita dalla tradizione che rappresenta anche psicologicamente un solco sicuro. Il giovane è mosso dal fascino del nuovo, l’anziano è rassicurato dalla consuetudine.
Una grande sfida pastorale consiste nell’accompagnare i giovani nel passaggio dall’innamoramento all’amore maturo, non solo nella vita di coppia ma anche nell’esperienza cristiana. Lo si può fare però non “dall’alto”, ma perdendo tempo con loro, aiutandoli a capire che le scelte non si possono basare esclusivamente sull’attrazione e che occorre pian piano scoprire il valore della costanza, della fedeltà alle decisioni assunte, della pazienza quotidiana di costruire.

Dispersi dalla noia della proposta

Una seconda serie di spunti disordinati riguarda la pesantezza di certe cose che proponiamo “in chiesa” e che sembrano fatte apposta per allontanare i ragazzi e i giovani. Mi riferisco in particolare alla messa e alla catechesi. Certo, la messa è quella e non possiamo sbizzarrirci in creatività: anzi, non dobbiamo lavorare troppo di fantasia, perché la liturgia ha una sobrietà ed una pregnanza che vanno difese. Ci sono tuttavia nella messa delle possibilità di animazione e interpretazione che sarebbe un peccato lasciar cadere o utilizzare male. Perché non curare almeno qualche volta il canto in modo che i giovani si sentano più coinvolti, anche a prezzo di qualche piccolo sacrificio da parte di chi ha sempre pronta la sentenza «ma questo non è liturgico!»? Perché non vivere con più scioltezza i riti dell’offertorio e del segno della pace, portando pazienza se si crea un momento di confusione? Ma credo che sia soprattutto l’omelia a dare il “la” alla celebrazione eucaristica. Un paio di anni fa il segretario generale della CEI, mons. Crociata, definì una certa omiletica “poltiglia” insulsa, quasi una “pietanza immangiabile” e comunque “ben poco nutriente”. I primi a farne le spese sono i ragazzi e i giovani, che appena possono evitano di sottoporsi ad un esercizio di resistenza passiva al sonno: mentre Gesù non faceva mai sbadigliare né dormire, semmai faceva arrabbiare, ma una reazione viva la provocava sempre. Non mi pare che sia tempo perso quello che un prete dedica alla preparazione dell’omelia festiva, in modo che sia breve, interessante e concreta. E forse a poco a poco qualche giovane in più compare nelle panche.
Per la catechesi aggiungerei un’altra provocazione. Il famoso problema degli abbandoni del post-cresima è sicuramente legato alle turbolenze adolescenziali, ma è prima di tutto un problema del pre-cresima. Se la catechesi preparatoria ai sacramenti è una lezione di scuola in più con tanto di banchi, registro, appello, esercizi di lettura, compiti a casa, interrogazioni e sanzioni, un ragazzo mentalmente sano appena può ne fa volentieri a meno. I catecheti italiani elaborano già da qualche anno itinerari di catechesi che intendono descolarizzare l’iniziazione cristiana e, senza ovviamente eliminare i contenuti fondamentali della fede da trasmettere, cercano di immaginare un metodo più completo: accanto all’incontro classico devono trovare posto celebrazioni, testimonianze, attività, giochi, incontri con realtà e persone significative, esperienze di servizio, inviti a percorsi di accompagnamento personale, canti, teatro, e così via. Là dove gli adulti si prestano ad accompagnare i bambini e i ragazzi in questa maniera “integrale”, prima e dopo la Cresima, sembra proprio che l’emorragia adolescenziale non sia inevitabile.

Accoglienza, comprensione e fiducia

Infine, continuando in questo disordine concettuale, vorrei dire che la parrocchia - senza trasformarsi in un contenitore caotico di gruppi - deve “muoversi” un po’ di più verso l’accoglienza, in genere molto curata nei movimenti. A volte si ha l’impressione che la vita della parrocchia sia modellata su quella di un’azienda e la smania delle iniziative prenda il sopravvento sulla cura dell’accoglienza; mentre la parrocchia dovrebbe modellarsi sulla famiglia e puntare sulle relazioni. Si tratta di due logiche diverse: nell’azienda contano le prestazioni, nella famiglia le relazioni; nell’azienda chi non produce ancora o non produce più non trova spazio, mentre nella famiglia il bambino e l’anziano meritano un’attenzione ancora maggiore; nell’azienda contano i numeri, nella famiglia le persone; l’azienda si muove sull’efficienza e la produzione, la famiglia sull’efficacia e sugli affetti. Questo non significa che non debbano trovarvi posto anche i numeri, i bilanci e l’efficienza, ma non possono avere il posto centrale. Come una famiglia non è anarchica e deve darsi una certa organizzazione, così anche la comunità cristiana: purché l’organizzazione sia al servizio delle relazioni e non viceversa. Perché i giovani non cercano solamente dei servizi, ma cercano soprattutto accoglienza, comprensione e fiducia: e pare che fino ad ora la trovino più nei movimenti che nelle parrocchie.