Degli usi e costumi del tempo conventuale passato fanno parte anche le lunghe quaresime e le frequenti feste invernali delle tante Madonne presenti nei luoghi strategici. Qui si ricorda la festa della Madonna del canavetto.
E poi si ricorda ancora fra Gioacchino e come andava alla questua dei fagioli.

Nazzareno Zanni 

IN CONVENTO Amarcord 01 (Archivio Provinciale)Amarcord di avvento

La Madonna del canavetto: quando la festa rompeva i digiuni

 

La pratica dei digiuni

L’inverno è sempre stato particolarmente lungo nei conventi. Non solo per il freddo che di notte si affrontava con uno strato di coperte così pesanti che il mattino dopo ci si alzava con le costole rotte, ma soprattutto perché in inverno si… digiunava. Erano tempi, quelli, in cui occorreva fare economia di ogni cosa, compreso il cibo e le bevande, acqua esclusa, perché questa, raccolta in una cisterna, la mandava gratis il buon Dio dal cielo. Si dovevano aspettare mesi per vedere di nuovo sorridere la tavola con nuovi frutti. D’inverno ci si arrangiava come si poteva: patate e poi patate, riso cotto in tutte le salse, e cavoli, quando un po’ di sole li scovava da sotto la neve nell’orto. Pane sì, quello non mancava mai, e il pane romagnolo rendeva appetitoso qualunque cibo. Anche il vino lasciava a desiderare, perché si ricorreva al “mezzo vino”, cioè al vino ottenuto riempiendo con acqua i tini dai quali era stato spillato il vino buono, ma ancora con i graspi dell’uva da sfruttare fino in fondo.

I digiuni si susseguivano l’uno dietro l’altro: il digiuno d’Avvento, seguito poi dalla “Benedetta”, cioè il digiuno che san Francesco raccomandava ai suoi da farsi dopo l’Epifania fino alla Quaresima - e chi lo avrebbe fatto avrebbe ricevuto dal Santo una speciale benedizione - e infine il digiuno quaresimale. Questo terzo digiuno, benché monotono e lungo, non era poi pesante come gli altri, perché già si intravedevano nuovi colori sulla tavola, e l’aria portava anche in convento i primi tepori della primavera.

Il digiuno meno appetitoso, anche se più breve, era quello di Avvento, per molteplici ragioni: il buio sempre più lungo, il freddo sempre più crudo, e la necessità di fare ogni economia possibile in vista di un inverno che nessuno sapeva quando potesse terminare. Tuttavia non tutti i giorni della settimana erano uguali: la domenica ogni pratica di digiuno veniva sospesa, perché questo giorno doveva essere festa per tutti. Anche per i frati. A tavola qualcosa di meglio si vedeva e il vino, una volta tanto, era di quello schietto. Ma era soprattutto la sera, dopo cena, che si poteva dimenticare il freddo dell’inverno e soprattutto il digiuno di sei giorni di seguito.

Le Madonne del convento


In tutte e quattro le domeniche di Avvento si festeggiavano tutte le possibili Madonne disperse nel convento: nel canavetto, in cucina, nel corridoio e nell’orto. Particolarmente festeggiata era la Madonna del canavetto, che troneggiava nel luogo più esclusivo del convento, il canavetto appunto. Non esiste un dizionario italiano di uso comune che riporti la voce “canavetto”, termine tipico del linguaggio fratesco. Indicava - e, dove esiste ancora, indica - il luogo dove il frate addetto preparava il vino, l’acqua, il pane e la frutta per la mensa conventuale, e dove conservava oggetti della tradizione cappuccina, che aveva ereditato dal suo predecessore. Un luogo di cui il frate canavettaio era particolarmente geloso, e dove consumava i suoi misfatti, cioè tutti i rimescolamenti di vino, come in un laboratorio di alchimia, di cui solo lui conosceva il segreto. In un angolo di quel piccolo stanzino era posta una nicchia con una statua della Madonna, con una o due piccole luci, per indicare che era Lei a presiedere a tutte le operazioni ivi compiute. Davanti a Lei il frate canavettaio sostava in preghiera, perché quella era la “sua” Madonna, la quale non faceva una piega quando assisteva al miracolo dell’acqua trasformarsi in vino. Nella prima domenica di Avvento si festeggiava proprio quella Madonna. Il frate canavettaio, o chi per lui, doveva preparare e imparare a memoria un breve sermoncino devozionale da farsi davanti a tutti i frati radunati nel luogo più caldo, cioè in cucina, dove scoppiettava un fuoco allegro. Subito dopo cominciava la festa.

Nei miei ricordi non è ancora svanita la memoria della festa della Madonna del canavetto nel convento di Cesena, quando ero novizio. Allora erano i novizi a farsi carico del fervorino, e non è difficile immaginare che il giovane frate incaricato - poco più che sbarbatello - provasse un sacro tremore nel trovarsi a parlare, senza alcun foglio scritto, davanti a frati di tutte le età, specialmente a quanti facevano della predicazione la loro principale occupazione. Al termine del discorso, il frate “predicatore” riceveva i complimenti più o meno convinti dei presenti, ma soprattutto si sentiva sollevato nello spirito dopo quella prova di fuoco. E così, recitata da tutti una preghiera, si dava inizio alle danze, cioè alla festa nel suo aspetto mangereccio: un buon bicchiere di vin brulé, un pugno di lupini, un cono di noccioline americane - così chiamavamo le arachidi tostate - e poi canti e tanto parlare dopo gli indigesti silenzi settimanali a tavola. Il caldo non faceva difetto, perché la stufa “economica” a legna sembrava come partecipare alla generale allegria. Ricordo anche che il frate cuciniere, allora era frate Davide, un frate alto come le sue montagne di Badi di Castel di Casio, aveva preparato tutto con cura, e quella volta non mancò di far partecipe della festa anche il suo… maiale, che aveva ingrassato con i pochi resti della tavola dei frati. La storia di quel maiale merita di essere raccontata.

 

IN CONVENTO Amarcord 02 (Archivio Provinciale)Un singolare novizio


Un giorno, durante il pasto di mezzogiorno, il padre guardiano dispensò dal silenzio - cioè permise che si potesse parlare mentre si mangiava - con queste parole: «Oggi sono entrati in convento sei nuovi novizi». Tutti noi novizi ci guardammo in faccia, allungando il collo per vedere se si erano aggiunti altri frati a tavola. Ma il numero era rimasto quello: sette eravamo e sette eravamo rimasti. Il rebus fu risolto quando il padre guardiano rivelò la natura di quei sei novizi che si erano aggiunti: sei maialini. Naturalmente noi novizi non la prendemmo tanto bene, ma nessuno lo diede a vedere: si fece solo un risolino forzato e basta. Ma quella uscita del padre guardiano portò male: cinque maialini in pochi giorni tirarono le cuoia e andarono a finire nel pentolone dove, frate Davide, oltre che cuoco era anche maestro nel mestiere di saponiere, li trasformò in sapone, ottimo per lavare la biancheria. La morte di quei cinque maialini fu però la fortuna dell’unico rimasto, che ebbe il cibo tutto per sé e una particolare cura da parte del frate cuoco, divenendo un maiale tanto florido che, al solo vederlo, già si poteva avvertire in bocca l’appetitoso sapore delle salsicce e dei salami.

Quel maiale, dunque, obbediente al frate cuoco, fece la sua entrata in cucina, apprezzando l’odore di quel luogo sacro con grugniti da spezzare il cuore. Ma a lui non toccò niente, perché era venuto solo in passerella. Mestamente dovette poi fare ritorno alla sua reggia, dove vi era ben altro profumo, sconsigliato a nasi delicati.

La festa della Madonna del canavetto, così come le altre simili, si prolungava non più di tanto, ma sufficiente per creare un clima gioioso tra i frati, e terminava con il suono del coppo - una sorta di gong - il cui suono si diramava per tutto il convento. Era il segnale che dava inizio al “silenzio rigoroso”, un silenzio che si sarebbe concluso il mattino dopo, al termine della preghiera dell’alba. Per quella notte niente alzata all’una dopo mezzanotte per la preghiera notturna, come si faceva per tutti gli altri giorni della settimana. E così i frati, giovani e meno giovani, potevano riposare in pace, riscaldati dal vin brulé, e con il sapore delle noccioline in bocca, sognando la successiva domenica, quando avrebbero fatto ancora festa, forse anche con fichi secchi.