Baioni 01Ero povero e avete armato i miei nemici


Il commercio delle armi pone questioni morali tuttora ignorate

 

di Giusy Baioni

giornalista


Senza memoria e senza midollo 

Scrivo a pochi giorni dalla tragedia di Lampedusa. Quando la rivista andrà in stampa, forse ce ne saremo già dimenticati, collocando quel dramma nella lunga scia di morte che ammorba il Mediterraneo. O forse no, forse sarà finalmente l’occasione per una svolta nelle nostre politiche. Ma quei morti restano sulla nostra coscienza di cittadini europei e di cittadini del mondo. E non solo quelli. Ci voleva una sciagura di tali proporzioni per farci aprire gli occhi. Per scuoterci dal nostro torpore. «C’è la crisi!», ripetiamo come scusante, senza renderci conto che dall’altra parte del Mediterraneo si sta infinitamente peggio.

No, non ho sbagliato tema. Mi è stato chiesto di parlare di armi e guerre. Ma non ci rendiamo conto che sono due facce della stessa medaglia? I richiedenti asilo che approdano disperati sulle nostre coste scappano da conflitti che si combattono con armi made in Europe. E le nostre politiche estere a volte ignave, a volte compiacenti, non fanno nulla per fermare stragi di innocenti. O - Dio non voglia! - a volte le provocano pure. E noi, noi cittadini? Troppo presi dal nostro ombelico. «C’è la crisi!», e così non ci interessa, nemmeno ci accorgiamo di quanto accade sulle altre sponde del Mediterraneo, della misera fine delle rivoluzioni arabe, della tragica guerra in Siria, paese ormai allo sbando e in mano a criminali d’ogni sorta. Nemmeno ricordiamo più la nostra responsabilità storica verso la Libia, la Somalia e l’Eritrea, che se sono così piagate è anche per demerito nostro e della nostra colonizzazione fallimentare. Per non parlare delle porcherie commesse in Somalia negli anni Ottanta, dei traffici illeciti, delle contaminazioni su cui indagava Ilaria Alpi, che ha pagato con la vita. Siamo un paese senza memoria e senza midollo. Non sappiamo alzare la voce per rivendicare i nostri diritti, tanto meno lo facciamo per i diritti degli altri. Pronti invece a scannarci per dividerci il magro bottino.

 

Baioni 02 (Luigi Ottani)Proliferazione sotto il sole 

All’inizio di settembre, parlando di Siria, papa Francesco ha stupito il mondo pronunciando una frase semplicissima: «Sempre rimane il dubbio se questa è una guerra commerciale per vendere queste armi, o è per incrementarne il commercio illegale? No al commercio e alla proliferazione delle armi!». Nulla di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire. Eppure, ci siamo meravigliati tutti per questa affermazione. Come se anche il nostro paese non fosse tra i maggiori produttori ed esportatori di armi al mondo. Certo, non siamo più alla ribalta, come quando vendevamo mine antiuomo (che ora - proprio grazie all’impegno di alcuni italiani - sono state bandite, ma su cui ancora oggi e nei prossimi decenni continueranno a saltare uomini, donne e bambini), tuttavia non smettiamo di farci vanto della nostra Finmeccanica, carrozzone mangiasoldi, fonte di corruzioni enormi, sotto indagine, azienda pubblica che con le sue controllate produce e vende armi. Per non parlare del capitolo F35, di cui già saprete tutto.

Mi è tornato alla mente un piccolo episodio di dieci anni fa: mi trovavo in Ituri, regione nordorientale del Congo, dove era scoppiata una guerra fra le due etnie locali, gli hema e i lendu. Molti morti, migliaia di sfollati. Ricordo benissimo come mi fu spiegato quanto accadeva: «Fra le due tribù è in corso una faida da decenni, per questioni terriere. Poi, ad un certo punto, sono arrivati i kalashnikov». Ecco, in sintesi estrema, cosa significa armare una guerra. Scontri, liti, contese che prima erano su un piano tutto sommato accettabile, all’improvviso degenerano. E nulla è più come prima. Basta un attimo per distruggere, ma servono decenni per ricostruire, soprattutto per perdonare, per voltare pagina, per tornare a sentirsi fratelli del “nemico”.

Al mondo l’industria bellica fa girare 400 miliardi di dollari l’anno. Secondo il rapporto annuale dello Stockholm International Peace Institute, le spese militari sono circa il 2,5% del PIL mondiale: 249 dollari a testa. Come se io e te, ma anche i nostri figli e nipoti, quest’anno avessimo speso all’incirca 200 euro per comprarci un’arma. Una a testa. Tra i maggiori investitori, in primis gli Stati Uniti, seguiti da Cina, Russia, ma anche India e Brasile. E paesi come la Francia, l’Italia e la Gran Bretagna. Per non parlare dei tanti paesi in via si sviluppo che investono cifre enormi in armamenti, anziché destinarle a politiche sociali. Gli esempi sarebbero purtroppo tantissimi. Basti un dato su tutti: dal 2001 l’Italia è il primo partner europeo per le spese militari del regime di Assad in Siria, che ha speso 17 milioni per acquisti regolari di armamenti nel nostro paese su un totale di 27 milioni investiti in Europa.


C’è chi si impegna 

Da anni esistono in Italia associazioni che con estrema professionalità seguono, documentano e denunciano cosa si muove nel comparto bellico italiano, come il governo affronta e gestisce le spese militari, quali banche appoggiano tali investimenti. Associazioni come Rete Italiana per il Disarmo o Archivio Disarmo, che hanno dato vita a varie campagne nel corso degli anni, atte a sensibilizzare l’opinione pubblica e a sollecitare lo stato a politiche più trasparenti e in linea con l’articolo 11 della nostra Costituzione. L’ultimo rapporto in ordine di tempo è Don’t bank on the bomb, prodotto dal movimento mondiale ICAN (International Campaign to abolish nuclear weapons per l’abolizione delle armi nucleari), che elenca i 298 istituti finanziari che investono in armi nucleari la cifra di 314 miliardi di dollari: in Italia, risultano coinvolte Intesa Sanpaolo e UniCredit, mentre l’unico istituto italiano totalmente limpido è Banca Etica. In questa linea va letta anche l’assegnazione del premio nobel per la pace, che quest’anno è andato all’OPAC, l’Organizzazione per la Proibizione delle armi chimiche. Un bel segnale.

E se è chiaro che le guerre sono un affare molto lucrativo, è altrettanto chiaro che una sconfitta di questa logica si può realisticamente ottenere un passo alla volta. Mettendo al bando le armi partendo da quelle chimiche e nucleari, smascherando gli interessi di chi guadagna con la morte, giungendo a trattati internazionali che portino ad una civiltà giuridica basata su una cultura di pace. Ed è in quest’ottica che mi piace concludere con una nota positiva: a fine settembre, con i voti unanimi di camera e senato, l’Italia è stato il primo paese europeo (il quinto al mondo) a ratificare il Trattato sugli armamenti, la prima legislazione internazionale che impone un controllo sul commercio di armi. Serve l’adesione di altri 45 stati perché il trattato entri in vigore, il cammino è ancora lungo, ma la pressione della società civile mondiale potrebbe ottenere molto.

Per questo temi come le guerre ed il commercio di armamenti non sono troppo grandi, troppo lontani da noi, comuni cittadini, che al contrario abbiamo un enorme potere. Sta a noi servircene nel modo giusto.

Per non sentirci dire, in quel giorno, «Ero profugo, rifugiato, in fuga dalla guerra e dalla fame, e tu mi hai respinto. E hai armato la mano dei miei persecutori». Ricordava in questi giorni padre Alberto Maggi la storia di un bambino fuggito da Israele con i suoi genitori, cercando scampo a una strage: passò la frontiera con l’Egitto e nessuno lo cacciò, fu anzi accolto ed ebbe la possibilità di sopravvivere in quel paese fino a che il tiranno che governava il suo morì. Allora poté far ritorno senza più rischiare la sua vita. E divenne ciò che sappiamo.