De Carlo 01Il pascolo della pace

Il profeta Zaccaria ricorda la via per una convivenza fraterna

di Giuseppe De Carlo
della Redazione di MC


Il giaguaro col capretto

Scrivendo forse sull’onda emotiva suscitata dalla discesa di Alessandro Magno da nord a sud attraverso Siria, Fenicia e Filistea all’indomani della sconfitta dei Persiani (333 a.C.) a Isso, il profeta Zaccaria intravede un’era di pace per il futuro della nazione, che come ai tempi di Salomone andrà da mare a mare (dal Mediterraneo al Mare Morto e al Giordano), e dal Fiume fino ai confini della terra (dall’Eufrate, il Nord, all’Egitto, il Sud): in quel futuro, che sembra imminente e a portata di mano, scompariranno i carri da guerra e scomparirà il superbo cavallo che li trascina alla battaglia e alla strage, sarà spezzato l’arco che colpisce a morte da lontano, e, soprattutto, sorgerà il re ideale di cui Gerusalemme è in attesa dai tempi di Davide: re che - dice il profeta - «annuncerà la pace alle nazioni» (Zc 9,9-10).

Nello scrivere questo breve esaltante oracolo, il profeta Zaccaria ha avuto un grande maestro e un grandissimo discepolo. Il maestro è il profeta Isaia (intorno al 700 a.C.), il quale aveva parlato di gioghi e di sbarre infranti, di bastone dell’aguzzino spezzato, di calzari da guerra e di mantelli intrisi di sangue dati al fuoco, perché - dice Isaia - «un bambino è nato per noi / ci è stato dato un figlio. / Sulle sue spalle è il potere / e il suo nome sarà: / Consigliere mirabile, Dio potente, / Padre per sempre, Principe della pace» (cf. Is 9,3-6). Poco più oltre il grande Isaia, tornando a parlare del germoglio e del virgulto che «spunterà dal tronco di Iesse» dirà che, ripieno di spirito del Signore, quel germoglio «giudicherà con giustizia i miseri» e invece «percuoterà il violento con la verga della sua bocca e con il soffio della sue labbra ucciderà l’empio» (Is 11,4). La pace da lui portata deborderà, andando oltre il regno umano, riconciliando anche il regno animale, all’interno del quale vige altrimenti la legge del più forte: «… il lupo dimorerà insieme con l’agnello; / il leopardo si sdraierà accanto al capretto; / il vitello e il leoncello pascoleranno insieme […] / La mucca e l’orsa brucheranno insieme; / i loro piccoli si sdraieranno insieme [da notare l’insistenza sulla dolce parola “insieme”]. / Il leone si ciberà di paglia, come il bue». Vi sarà pace non solo tra animale e animale, ma anche tra gli animali da una parte e, dall’altra, l’uomo: anzi, il cucciolo d’uomo: «un piccolo fanciullo li [vitello e leoncello] guiderà […] / Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera; / il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso» (cf. Is 1,1-9).

 

De Carlo 02A cavallo d’asina
Grandissimo discepolo di Zaccaria fu Gesù quando cavalcò un puledro d’asina per il suo ingresso in Gerusalemme, mettendosi consapevolmente nel ruolo predetto da Zaccaria che aveva scritto: «Esulta grandemente, figlia di Sion [città di Gerusalemme], […] / Ecco, a te viene il tuo re. / Egli è giusto e vittorioso, / umile, cavalca un asino, / un puledro figlio d’asina» (Zc 9,9). In guerra serve il cavallo, con l’altezza e robustezza della sua corporatura, con la sua capacità di spostarsi velocemente, con il suo istinto alla sfida e alla rivalità. La flemma dell’asino lo fa invece disadatto all’infuriare della mischia senza esclusione di colpi sul campo di battaglia, per cui scegliere l’asino come cavalcatura è mandare un segnale di pace, di mitezza. Non per nulla il Salmo 20,8 aiuta a mettere il cavalcare un asino in parallelo con il porre tutta la propria fiducia nel nome del Signore: «Chi fa affidamento sui carri, chi sui cavalli: / noi invochiamo il nome del Signore, nostro Dio».
Zaccaria e il suo maestro Isaia aiutano a fare una riflessione sulla figura del profeta che essi hanno incarnato. Il profeta può sembrare un acchiappanuvole, perché i suoi oracoli non si realizzano mai. Le sue parole sono gradevoli, ma non è affatto bene che il lattante si trastulli sulla buca della vipera, ed è vero invece che, senza sosta e quasi a nostra insaputa, si costruiscono e si riempiono arsenali addirittura di armi chimiche, così come si riempiono gli angar di droni e di bombardieri. Il profeta di pace però è necessario come l’aria: per dire che l’esistente, il quale gira attorno alla logica della contrapposizione armata, ha bisogno del verbo della pace. Per questo l’annunciatore di pace, con tutte le sue illusioni, può essere descritto come il giovane Saul, che superava in altezza tutti i coetanei: Saul era «prestante e bello: non c’era nessuno più bello di lui tra gli Israeliti; superava dalla spalla in su chiunque altro del popolo» (1Sam 9,2). La generazione che non ha profeti è una generazione povera e sfortunata.
Soprattutto la pace
In altre parole, se è vero che siamo ben lontani dal vedere bruciati nel fuoco calzari da guerra e mantelli intrisi di sangue, è vero anche che gli oracoli profetici ci indicano la direzione verso cui guardare. Per tirare in causa ancora Saul, ma vedendolo dal lato opposto, quello malvagio, gli oracoli di pace sono musica guaritrice come quella che Davide intonava sulla sua cetra per ammansire e quietare i disturbi interiori di colui che fisicamente, ma solo fisicamente, «superava dalla spalla in su chiunque altro del popolo». Scrive il narratore biblico: «Davide prendeva in mano la cetra e suonava: Saul si calmava e si sentiva meglio e lo spirito cattivo si ritirava da lui» (1Sam 16,23).
La cetra del profeta suona per risvegliare in noi lo spirito buono, per promuovere tra noi la denuncia della guerra e la cultura della pace. Il profeta fa la sua parte ispirando pensieri di pace ma poi ognuno deve fare la sua, lasciandosi guarire interiormente e lasciandosi ispirare con un po’ di spirito profetico. Non molto tempo fa i pontefici parlavano di diritto all’autodifesa e conseguentemente di guerra giusta ma, se le ragioni e i diritti dell’innocente sono indiscutibili, le armi di distruzione oggi sono così devastanti che si fa fatica ormai a pronunciare la parola “autodifesa”. Oggi i papi invitano piuttosto a fare un sabato di digiuno e di penitenza, in attesa della domenica, perché nell’eucarestia domenicale ci si scambi un gesto di pace meno dovuto e meno formale.