Fioretti cappuccini
Come frate Pacetta vinse una tentazione della carne
Frate Pellegrino (Pellegrino Maccagni, 1896-1977) era un frate che di avventure nella vita ne aveva vissute più di un rosario intero.
Allo scoppio della prima guerra mondiale era stato arruolato e assegnato a un reggimento di fanteria in zona di guerra. Due anni dopo era stato catturato dal nemico mentre attraversava come disertore il confine e internato in campo di concentramento in Austria e in Boemia, da cui era riuscito a evadere con altri prigionieri. Dopo un viaggio rocambolesco, si era rifugiato in Russia, nazione alleata, dove si trovò a fare l’attendente di un generale, egli pure evaso da un campo di prigionia. Pellegrino, da militare che teneva molto e non a torto alla sua pelle, si era unito a lui, pensando che in due sarebbe stato più facile riuscire a cavarsela in quella precaria situazione. Seguiva in ogni dove il suo superiore, il quale non aveva perso tempo a trovarsi una contadinella, esibendola orgogliosamente come una sua conquista.
La bellezza di quelle lande sconfinate e piatte non era proprio quella che più attirava il soldato Pellegrino, in quanto pure lui si era accorto dell’avvenenza della donna del generale. Ma quel generale teneva gli occhi aperti, anzi spalancati, sul giovane attendente che lo accompagnava e non tardò ad accorgersi degli sguardi golosi che rivolgeva alla sua donna. Di giorno in giorno quegli sguardi aumentavano di intensità e le attenzioni dell’attendente verso quella seducente creatura apparivano sempre più sospette. Una sera, addirittura, il generale lo aveva pizzicato a suonare il mandolino sotto la finestra della sua amata, come se facesse una serenata. Allora il sospetto si era rivelato più che un sospetto, sicché il generale, dopo aver scacciato con male parole il musicante importuno, aveva lasciato intendere che il mattino dopo avrebbe regolato la questione.
Pellegrino non era stato così insipiente nell’attendere il mattino, e quella notte stessa aveva preso su le sue cose ed era fuggito nel buio della pianura russa, come già aveva fatto dai campi di concentramento. Viaggiando con tutti i mezzi di fortuna, aveva raggiunto l’estremo nord-est della Russia, giungendo fino a Vladivostok, sul mar del Giappone. Come poi sia riuscito a fare ritorno in Italia ben più tardi della fine della guerra, non l’ha mai rivelato a nessuno, ma non è inverosimile pensare che si sia servito anche della ferrovia transiberiana, che aveva il capolinea propria là.
Ritornato nel suo paese natale, Campagnola Emilia, adempiendo un voto fatto nella sterminata Russia - se fosse ritornato in patria vivo e sano -, si era fatto cappuccino.
Fu assegnato con l’incarico di questuante di campagna in vari conventi della terra emiliana, ma soprattutto a Salsomaggiore, dove ebbe il soprannome di «fra Pacetta», perché diceva sempre a ogni visita di case: «Pace! La pace è la più bella cosa!». Ed era naturale che dicesse così, lui che, a motivo del conflitto mondiale, si era visto costretto a percorrere migliaia di chilometri sia per sfuggire agli spari delle armi, sia per riuscire a cavarsela con un rivale in amore.
Si era in piena estate e il caldo soffocante della pianura non lasciava neppure dormire. Anche fra Pacetta, di convento a Salsomaggiore, quella notte si voltava e rivoltava nel letto faticando a chiudere un occhio. Appena si appisolava, una zanzara importuna gli suonava il mandolino a un orecchio e il sudore lo infastidiva fino a svegliarlo. Non riuscire a dormire di notte conduce la memoria a mulinare i ricordi lontani, e così fu anche per fra Pacetta. Tanti anni erano ormai trascorsi ed era già scoppiata e conclusa una seconda guerra mondiale, ma fra Pacetta mai aveva dimenticato le sue avventure nelle infinite lande russe nel primo conflitto. Così si delineò nella sua immaginazione il volto minaccioso del generale e gli apparve davanti agli occhi, come d’incanto, il sorriso della sua fascinosa donna. Uh, come la ricordava! Era, sì, acqua passata, ma di bellezza femminile fra Pacetta sembrava non essere ancora sazio. Anzi! Tra sé diceva che la bellezza in qualunque modo si presentasse, era sempre un dono del Signore. E che dono era quello!
Allora, come era già avvenuto a san Francesco, sentì la carne rivoltarsi. L’avvenenza di quel volto lo stava nuovamente seducendo. Frate Francesco, in simile circostanza, si era denudato e si era rotolato nella neve di un gelido inverno, spegnendo così il fuoco della tentazione della carne, e allo stesso modo facevano pure gli altri frati del tempo, che addirittura domavano gli impulsi carnali gettandosi anche tra i rovi (1Cel XV, 40-42). Ma fra Pacetta sapeva che era piena estate e che per la neve avrebbe dovuto attendere la stagione invernale, mentre il demonio della tentazione lo stava tormentando proprio in quell’ora notturna. E neppure era pensabile gettarsi tra i cespugli di rovi, perché in città questa specie di arbusti era ormai estinta. Era urgente agire subito. Che fare?
Si era ancora nel buio della notte e il sole avrebbe ancora tardato a spuntare all’orizzonte. Fra Pacetta non ebbe esitazioni. Si rivestì della tonaca, uscì piano piano dalla sua cella e scese le scale. Si recò nell’ala del convento adattata a stalla e a fienile, dove sapeva trovarsi una lunga e pesante scala in legno di venti pioli. La imbracciò come era solito quando doveva portarla fuori per salire sul fienile, e uscì in strada con quell’ingombrante fardello in spalla. C’era un grande silenzio, quasi irreale. Le luci delle case erano ancora tutte spente, eccetto quelle dei fornai. Fra Pacetta se ne stette alla larga, perché, se lo avessero visto, avrebbero pensato a un ladro e dato l’allarme. Meglio prevenire guai, oltre a quello che già aveva. Continuò a girare per le strade della cittadina, attento a non colpire con la scala i lampioni e le insegne dei negozi. Così per una buona oretta fra Pacetta fece la sua via crucis indisturbato, fermandosi ogni tanto per cambiare la spalla che portava la scala, fermamente deciso a sbollire gli ultimi antichi ardori giovanili. Quando il fiato si fece grosso per la fatica e si accorse che la scala si faceva sempre più pesante, prese la via del ritorno in convento. Ormai stava albeggiando e già qualche fioca luce nelle case si stava accendendo: i soliti mattinieri, che si dimostrano sempre anche i più curiosi. Meglio evitare incontri importuni, perché certe cose non vanno spifferate ai quattro venti.
Giunto in convento depose la scala dove era collocata prima, e ritornò nella sua cella. Quando vide il letto ancora disfatto, vi si abbandonò senza pensarci due volte, si addormentò come un sasso quasi subito e si immerse in tanti sogni. Sogni, sogni… Mai rivelati però a nessuno, nonostante la curiosità dei frati, a cui non aveva fatto mistero del motivo della sua uscita notturna. Si limitava a dire che lui di notte sognava sempre il paradiso, con tanti angeli, uno più bello degli altri. Chi fossero poi quegli angeli mai lo svelò: «Angeli! E basta!».