A pensarci bene

Aggiornamento linguistico per costruire il vivere insieme

di Vittorio Lega
insegnante

Lega 1«Tante volte ci definiamo cristiani, facciamo dei bei discorsi, ma appena incontriamo una persona che non ci piace, la rifiutiamo, la chiudiamo in una definizione negativa con una bella etichetta sopra, in modo che non possa uscirne fuori. [...] Sia il bene che il male abitano nel cuore dell’essere umano, è lì che devo cercarlo e più precisamente nel mio cuore» (Hannah Jonà Listieva, Piccola intervista sull’eleganza del fiore che muore).

Parole-trappola

Badante, Clandestino, Extracomunitario, Irregolare, Razzismo, Sicurezza, Straniero: sono molte le parole-trappola che ci rendono difficile la lettura dei fenomeni sociali del nostro tempo. Di fronte a questa difficoltà siamo chiamati a fare i conti con una questione cruciale: l’atteggiamento di accoglienza o esclusione verso il nostro nuovo prossimo dei migranti. Per cominciare, dovremmo abituarci a pensare e pesare di più le parole che usiamo e che ascoltiamo: il linguaggio comune è infatti opaco, e non è facile percepire gli aspetti discriminatori ed escludenti che pure presenta, magari in modo nascosto.

L’ho imparato a mie spese anni fa, agli inizi della mia esperienza di insegnante nei corsi per adulti della scuola pubblica italiana. Di fronte a persone da poco giunte in Italia, avevo deciso di iniziare le lezioni con il verbo essere (e già questo era un errore, per motivi di didattica della lingua che non è possibile qui approfondire); decisi di formulare domande con le parole italiano e straniero. La risposta era scontata, perché i miei allievi erano tutti migranti; del resto mi interessava solo che essi apprendessero e sperimentassero le prime frasi italiane. In realtà, lo straniamento indotto dalla circostanza rendeva il significato delle due parole più nitido, affilato. Quando chiesi «Tu sei straniero?» mi colpì la perplessità lucida dei loro volti, che non era mancanza di comprensione, ma piuttosto rifiuto di cogliere il senso di una domanda alla quale, così mal posta, era forse impossibile rispondere.

Il concetto di straniero ha senso solo in una relazione, dice il poeta francese Edmund Jabès: «Lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero [...]. La distanza che ci separa dallo straniero è quella stessa che ci separa da noi».

Migranti e scuola

La scuola è un osservatorio privilegiato per imparare a distinguere le parole che uniscono da quelle che dividono, a patto di riporre la matita rossa e blu, e leggere, dietro i cosiddetti errori, i sintomi e le tracce dei percorsi di vita retrostanti, ciascuno prezioso perché irripetibile. Ecco allora che badante e extracomunitario si rivelano obbrobri linguistici rozzi e offensivi, che solo noncuranza e pigrizia collettive hanno reso insostituibili persino nel linguaggio istituzionale; clandestino - che significa nascosto e stigmatizza invece persone che meno nascoste non si può - e irregolare, svelano la natura di parole-pietre che creano illegalità più che risolverla, e ulteriore sfruttamento. E ci scopriamo tutti razzisti, se non teniamo a bada quella bestiaccia oscura onnipresente, che viene a galla così spesso nella frase: «io non sono razzista, ma però...»; ossessionati infine dalla sicurezza, che è una bellissima cosa, ma se scopriamo che vuol dire «senza cura», beh, se non ci curiamo di qualcuno, rischiamo di escludere nell’indifferenza un potenziale amico, rendendolo forse nemico.

Ma ci sono anche luci: le nuove disposizioni di legge dal 2012 hanno portato a scuola centinaia di migliaia di migranti. Per la prima volta la società tutta riconosce come requisito di integrazione, accanto al lavoro, cultura e conoscenza. E nelle aule i migranti non entrano solo per la lingua italiana o per la licenza media, ma soprattutto per forgiare una seconda identità, nella quale loro stessi e l’Italia - nuova patria, perché qui essi diventano padri - usciranno trasformati. Invece molti italiani, uniformandoli a loro stessi, li pensano turisti in vacanza, a caccia di emozioni mordi e fuggi e per questo disposti a lasciare a casa le proprie culture e abitudini, come chi presto tornerà. Ma la loro scelta è definitiva. Prendiamo atto che lo straniero va accolto, e non perché serve e ci è utile, ma perché c’è, e ci sarà con noi.

Lega 2Due bussole: Costituzione e Vangelo

Due bussole straordinarie abbiamo per orientarci a un’etica condivisa: la Costituzione e il Vangelo. La prima riconosce i diritti universali della persona al di là di ogni status di cittadinanza (e questo rende meno drammatica - anche se non meno urgente da risolvere - la difficoltà dei migranti, anche per i figli nati e cresciuti in Italia, nel richiedere e ottenere la cittadinanza italiana). Si chiude la bocca così a chi vuole oggi alimentare o dare credito a leggende metropolitane su presunti privilegi accordati per legge ai migranti, che «scavalcherebbero» così i cittadini italiani. La distinzione migranti-italiani non esiste, a livello di diritti fondamentali (casa, lavoro, salute, dignità della persona). Chi sostiene il contrario avalla una opinione che, legittima in quanto tale, trova rappresentanza persino in Parlamento, ma non abita l’orizzonte di civiltà tracciato dalla Costituzione.

Nei Vangeli i migranti, uomini e donne, appaiono come protagonisti nell’accogliere e nell’essere accolti: il samaritano, la donna cananea. Sono figure del prossimo che anche oggi ci capita di incontrare, forse troppo lontano dall’idea edulcorata sulla quale basiamo i nostri atteggiamenti ed aspettative verso l’altro. O forse no: chi sente il vangelo, se non si arrocca su posizioni dogmatiche, è fra i pochi nella società occidentale capace di condividere nella rinuncia. In un mondo reso diseguale da piccoli privilegi diffusi e difesi ad oltranza, che al pari dei più grandi e più appariscenti impediscono il perseguimento del bene comune, la rinuncia è un valore tra i meno attuali; eppure potrebbe esserci richiesta dall’evoluzione della storia: la scelta di opporsi potrebbe avere un prezzo molto alto.

Di fronte a un possibile peggioramento del mondo, definitivo o provvisorio che sia, serve il coraggio di un confronto serrato con le proprie paure: un confronto che già da millenni ci offre complessità illuminanti, se già in latino hostis, nemico, è comunque anche hospes, ospite. E la paura non ha impedito nei secoli e soprattutto nell’ultimo, pur dentro innumerevoli tragedie, l’incessante presenza dell’amore.

Il libro che vorrei segnalare è:

Hannah Jonà Listieva Piccola intervista sull’eleganza del fiore che muore, Albatros, Roma 2010

È una toccante testimonianza che ci mostra dall’interno la durezza e il fascino di un’esperienza di migrazione nella nostra regione, dove la protagonista Hannah è capace non solo di vivere l’Italia, ma di interrogarla, capirla e smascherarne le false certezze con lucida analisi, mediante la quale ci osserva e ci giudica senza indulgenza, accompagnandoci per mano a superare i luoghi comuni.