Il meglio che deve venire

La visione pastorale di Giovanni XXIII per aderire alla vita con un po’ di sale 

di Enrico Galavotti
della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII

galavotti 1Il conduttore che fu condotto

Con l’elezione a papa di Jorge Mario Bergoglio il 13 marzo scorso la Chiesa cattolica vive la situazione inedita della compresenza di due vescovi di Roma: ma in un certo senso, osservando ciò che si è venuto sviluppando all’alba del nuovo pontificato, verrebbe da dire che più che Benedetto XVI sia Giovanni XXIII l’altro pontefice che vive, e tutt’altro che nascostamente, nel «recinto di San Pietro».

Perché davvero l’elezione del papa argentino ha riproposto, anzitutto all’attenzione della Chiesa, la figura e l’opera di Angelo Giuseppe Roncalli, morto il lunedì di Pentecoste di cinquant’anni fa. È del tutto fisiologico che i papi in carica facciano memoria dei loro predecessori, ma è anche vero che normalmente questa memoria tende a scemare. Nel caso di Giovanni XXIII, invece, si assiste al fenomeno inverso e a una sua forte riproposizione da parte di papa Francesco. Una riproposizione che si è spinta al punto da decidere di concludere finalmente il suo processo di canonizzazione e di proclamarlo santo nella stessa cerimonia in cui verrà canonizzato il beato Giovanni Paolo II.

Bisogna però fare attenzione alla qualità dei riferimenti compiuti da Francesco, perché è evidente che ciò che ha mosso il papa argentino in questa direzione non è stata la venerazione che questo suo predecessore continua a godere, ma precisamente la consapevolezza che nel magistero di papa Roncalli e nel modo in cui esso è stato esplicitato ci sono nuclei e modelli di eccezionale attualità. È abbastanza evidente che papa Francesco ha apprezzato anzitutto la dimensione pastorale del papato di Giovanni XXIII, in cui vede per il presente e il futuro una scelta ineludibile e da rilanciare con vigore. «Il mondo intero», ha detto Bergoglio, «aveva riconosciuto in Papa Giovanni un pastore e un padre. Pastore perché padre». Ed era esattamente questa opzione pastorale che aveva spinto Roncalli alla convocazione del concilio Vaticano II: Giovanni XXIII, ha detto ancora papa Francesco, non era l’“apprendista stregone” che aveva voluto un Concilio senza calcolarne le conseguenze, ma «era un uomo di governo, era un conduttore. Ma un conduttore condotto, dallo Spirito Santo, per obbedienza […]. Qui sta la vera sorgente della bontà di Papa Giovanni, della pace che ha diffuso nel mondo, qui si trova la radice della sua santità: in questa sua obbedienza evangelica».

galavotti 2Obbedienza alla realtà

Un’obbedienza che per Roncalli significava anzitutto l’adesione alla realtà: non per piegarsi ad essa, ma per comprendere in che modo riattualizzare ogni giorno l’annuncio del vangelo di Gesù. In tutta la vita di Roncalli non c’è mai stato un momento in cui si sia fatto vincere dalla nostalgia del “tempo che fu”. Quando era ancora un giovane sacerdote aveva scritto su un quaderno che i cristiani non dovevano coltivare «nessun rimpianto sterile del passato, nessun attaccamento alle cose morte: il meglio è dinanzi a noi e non dietro a noi. I tempi nuovi reclamano uomini nuovi: se noi vogliamo che l’antica fede rimanga viva bisogna celebrarla con una energia tutta giovane». E ancora quando era giunto l’annuncio della morte di Pio XII e in molti si chiedevano chi sarebbe stato in grado di raccoglierne l’eredità aveva placidamente commentato che chiunque fosse stato il nuovo papa non doveva rappresentare una soluzione di continuità, «ma progresso nel seguire la giovinezza perenne della santa Chiesa»: questo perché per Giovanni XXIII la Chiesa non era un museo da custodire, ma un giardino da coltivare.

Da più parti si è continuato per mezzo secolo a dire e scrivere che il limite profondo della prospettiva conciliare e dello stesso pontificato di Giovanni XXIII era l’assenza di un progetto preciso e predeterminato. In realtà la rotta, tanto per sé quanto per la Chiesa tutta, papa Roncalli l’aveva tracciata nell’allocuzione inaugurale del Concilio, quando aveva sancito la fine della stagione dell’intransigentismo e aveva enunciato la priorità della misericordia: aveva dunque lasciato chiaramente intendere che non era emanando ulteriori condanne o giungendo alla proclamazione di nuovi dogmi che l’evangelizzazione avrebbe fatto progressi. Di per sé si trattava di un mutamento epocale, perché avrebbe impegnato la Chiesa a ripensare categorie e atteggiamenti ormai consolidati da secoli.

Così, se da quel Concilio in poi si è potuto parlare di sinodalità e collegialità (come realtà o come obiettivo), si è potuto reimpostare l’atteggiamento della Chiesa nei confronti della società contemporanea e si è potuto parlare con rispetto e interesse delle altre religioni, lo si deve precisamente alla decisione di papa Roncalli di non celebrare un Concilio precotto, come pure molti avrebbero voluto, ma di affidare ai vescovi di tutto il mondo il compito di decifrare la realtà circostante e di individuare i mezzi più fecondi per interagire con essa: questo perché davvero i cristiani fossero il sale del mondo e non un agguerrito gruppo di pressione al suo interno. La stessa enciclica Pacem in terris costituiva in ultima analisi il manifesto di questo nuovo agire dei cristiani: uomini e donne fedeli ai doni ricevuti con il battesimo eppure impegnati a decifrare continuamente i segni dei tempi.

Cominciare a capire il Vangelo

«Il Concilio che inizia sorge nella Chiesa come un giorno foriero di luce splendidissima. È appena l’aurora», aveva detto Roncalli nel suo discorso inaugurale. Si tratta di parole la cui eco risuona ancora nella Chiesa. Perché Giovanni XXIII non aveva inteso fare della retorica, ma affermare con autorità e convinzione che la Chiesa, rimettendosi in viaggio, compiva l’atto più evangelico in assoluto. Papa Francesco, in questo senso, raccoglie i frutti di quella semina compiuta da Giovanni XXIII cinquant’anni fa: gesti come la preghiera di Assisi del 1986, il mea culpa del 2000 o ancora la messa a Lampedusa dello scorso luglio sarebbero stati impensabili senza il Vaticano II. In questi primi sei mesi di pontificato si sono tornate a udire parole come misericordia, dialogo, pastoralità, povertà, che non sono slogan a basso prezzo e alto rendimento, ma sono precisamente gli obiettivi e gli strumenti che la Chiesa ha oggi a sua disposizione per poter continuare a dichiarare lo scandalo della croce e la gioia della risurrezione. Sul suo letto di morte Giovanni XXIII aveva anche affermato la fine dell’autorefenzialità della Chiesa, su cui papa Francesco sta giocando le sorti del suo pontificato: «Ora più che mai», aveva detto Roncalli, «siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale e non solo i cattolici; a difendere anzitutto e dovunque i diritti della persona umana e non solamente quelli della Chiesa cattolica; e aveva aggiunto: «Non è il Vangelo che cambia: siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio».

Giuseppe Alberigo
Vita di papa Giovanni. Biografia di un pontefice
EDB, Bologna 2013, pp …

Alberto Melloni
Papa Giovanni. Un cristiano e il suo concilio
Einaudi, Torino 2009, …