Umiltà, parola-ritornello di papa Francesco. Imboccare la strada dell’umiltà non significa camminare con gli occhi bassi ma prendere la strada che Dio ha scelto ed in cui tutta la sua carità viene. Se non c’è umiltà, l’amore resta bloccato, non può andare. L’umiltà è un atteggiamento indispensabile nel dialogo in generale e in quello interreligioso in particolare. Ma prima bisogna precisare cosa si intende per umiltà. Esistono infatti, per il Vangelo, una falsa umiltà e una vera umiltà.

Barbara Bonfiglioli 

 

La verità oltre le percezioni

L’umiltà nel dialogo tra le religioni valorizza le peculiarità come doni

di Erio Castellucci
docente di Teologia all’ISSR “Sant’Apollinare” di Forlì

Image 229Falsa e vera umiltà

È falsa quell’umiltà che nega i propri doni. Non è umile, per il vangelo, colui che nasconde i talenti ricevuti sottoterra: a lui, anzi, Gesù riserva alcune tra le parole più dure che abbia mai pronunciato: «Il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti» (Mt 25,30).

Nascondere, con il pretesto dell’umiltà, i doni di cui Dio ci ha dotato, esprime in fondo una mancanza di fede: come se il Signore non facesse di ciascuno di noi un capolavoro; e costituirebbe oltretutto un comodo pretesto per evitare l’impegno e la responsabilità.

È vera invece, per il vangelo, quell’umiltà che riconosce i propri doni sapendo che sono, appunto, dei doni. L’umiltà di Maria va in questa direzione: nel Magnificat loda Dio perché «ha guardato l’umiltà della sua serva» (Lc 1,48); ma subito dopo sembrerebbe smentire questa umiltà e cadere nella superbia: «Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente» (Lc 1,49). Sembrerebbe superbia, e invece è vera umiltà: Maria riconosce le “grandi cose” che sono in lei, ma le attribuisce immediatamente a Colui che le ha fatte, Dio. Ecco l’umiltà: invece di nascondere i propri doni, apprezzarli e metterli a servizio, nella consapevolezza che non sono farina del nostro sacco ma provengono dal Signore.

L’umiltà nel dialogo

Il dialogo autentico suppone e intensifica l’umiltà. La suppone, poiché nasce dalla convinzione che l’altro mi possa aiutare a cogliere aspetti diversi della verità, mi possa completare e correggere, faciliti la scoperta di aspetti ai quali non avevo pensato. Chi parte convinto di avere già raggiunto tutta la verità, non cerca il dialogo ma solo il monologo; non ha interlocutori, ma solo destinatari; non è interessato ad ascoltare, ma solo a parlare. Chi invece parte convinto che la verità è sempre oltre la percezione da lui raggiunta, e che non è mai appannaggio di uno solo - fosse pure di una tradizione religiosa - ma è sempre frutto della convergenza di approcci differenti, allora dialoga davvero. Il monologo è piatto, bidimensionale; il dialogo è quadrimensionale. Se io pratico il monologo, infatti, esprimo solo ciò che io penso di me e dell’altro; se io invece pratico il dialogo, vengo raggiunto anche da ciò che l’altro pensa di se stesso e di me. La prospettiva cambia, si apre a nuovi apporti, arricchisce la mia stessa conoscenza.

Disse Giovanni Paolo II in un memorabile discorso ai docenti dell’Università di Bologna: «Se la risposta ultima alla nostra perenne domanda: Chi è l’uomo? noi l’attendiamo da Cristo, l’Uomo nuovo, crocifisso e risorto, questa stessa domanda noi la rivolgiamo anche a voi, perché quanto andate faticosamente conquistando ci interessa, ci è vitalmente necessario […]. Perciò la visione della verità che l’uomo moderno attinge attraverso l’avventurosa fatica della ragione non può essere che dinamica e dialogica. Poiché la ragione può cogliere l’unità che lega il mondo e la verità alla loro origine solo all’interno di modi parziali di conoscenza, ogni singola scienza - comprese la filosofia e la teologia - rimane un tentativo limitato che può cogliere l’unità complessa della verità unicamente nella diversità, vale a dire all’interno di un intreccio di saperi aperti e complementari» (18 aprile 1982).

Image 234L’umiltà nel dialogo interreligioso

Il concilio Vaticano II ha riconosciuto non solo la possibilità - già ripetutamente affermata lungo i secoli dalla Chiesa cattolica - che singole persone in buona fede, pur non appartenendo alla Chiesa, si possano salvare; ma anche la presenza nelle altre tradizioni religiose in quanto tali di elementi veri e buoni, che sono come “raggi” di quella Verità che illumina tutti gli uomini (Nostra Aetate 2).

A partire dal Concilio ma oltrepassandone la dottrina, si è sviluppata una versione piuttosto estrema del “pluralismo religioso”; posizione condivisibile se intende notare una condizione “de facto” - l’esistenza nel mondo di una pluralità di religioni - ma difficile da accettare se si pone come tesi “de iure”, ossia se intende congelare la situazione esistente escludendo la possibilità, per le religioni, di annunciare il proprio messaggio. Questa posizione, espressa da alcuni teologi (tra i quali Hick, Panikkar e Knitter) a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, riprendeva l’ideale illuminista della “pace universale”: ideale grande e lodevole, ma purtroppo non raggiunto anche a motivo del metodo indicato dagli stessi illuministi: ogni religione metta da parte le proprie specificità e si concentri sugli elementi comuni, che costituirebbero una sorta di “religione razionale” che mette tutti d’accordo. Questo metodo è precisamente quello della “falsa umiltà”, dove ciascuno dovrebbe fingere di non avere dei doni peculiari e dovrebbe convergere sulle presunte idee “comuni”. A parte il fatto che nessuna grande religione accetta di dialogare fingendo di non radicarsi in una precisa e peculiare tradizione, laddove qualche tentativo è stato fatto in questo senso ci si è resi conto ben presto che era impossibile raggiungere non solo un’idea universale di Dio - pensiamo solo al Dio cristiano e all’Assoluto buddhista - ma anche un’idea condivisa dell’uomo e della sua liberazione.

È invece a partire dall’apprezzamento dei doni della propria tradizione religiosa che è possibile, anzi doveroso, riconoscere anche quelli degli altri. In questo modo, riconoscendo l’azione universale di Dio Padre che imprime la sua “immagine e somiglianza” in tutti gli esseri umani (cf. Gen 1,26-27), del Figlio Gesù che si fa carne, muore e risorge in un corpo umano e dello Spirito che opera anche al di fuori dei confini visibili della Chiesa dovunque un uomo ricerchi la verità e il bene (Redemptoris Missio, nn. 28-29), il cristiano è in grado di apprezzare tutto il bene che Dio sa compiere dovunque, senza cadere nel relativismo.

In tal modo il dialogo è autentico e ciascuno, mantenendo la propria identità, trova nelle altre tradizioni dei motivi di arricchimento della propria e degli stimoli ulteriori verso il raggiungimento di quella Verità che è sempre oltre le percezioni umane.