Umiltà dissimulata

Panorama letterario del Novecento italiano, parco di umiltà

di Alberto Bertoni
docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Bologna

Image 076Santi o poeti

Per quanto concerne la letteratura, il Novecento non è un secolo umile. L’umiltà, come proprietà positiva dell’essere umano, è sostituita da una moltitudine di mascheramenti o di dissimulazioni, che riportano necessariamente ai processi di narcisismo e di annichilimento nella massa, di alienazione e di solipsismo poco coltivato di cui sono in larga misura malati gli ego dissociati e distratti della nostra contemporaneità occidentale.

E di persone capaci come Francesco d’Assisi di assommare la grandezza del poeta e quella del santo proprio non se ne sono viste.

Manzoni, però. La prima obiezione all’assunto d’inizio concerne la primogenitura del nostro romanzo moderno, I promessi sposi: esempio sommo di romanzo europeo, modellato su canoni francesi e inglesi, in dialogo con i princìpi teorici del Romanticismo tedesco e in sintonia con la svolta secentesca del Don Chisciotte della Mancha di Cervantes e dei drammi di Shakespeare. Anche romanzo cristiano (e questo è il suo indelebile carattere italiano), benché tutt’altro che codino o catechistico: senza idillio, piuttosto, e senza idillio come la Bibbia, secondo ciò che ha brillantemente e genialmente insegnato Ezio Raimondi, nell’arco di qualche decennio di magistero all’Alma Mater. Anche nei Promessi sposi, infatti, l’umiltà è una conquista, piuttosto che un dono a priori, oppure una precondizione a suo modo umiliata e umiliante di asservimento socioeconomico delle “genti meccaniche”, che per la prima volta si ergono a protagoniste di un grande affresco letterario.

Il male della storia, si sa, non è correggibile alla sua radice, se non dentro una visione problematicamente provvidenziale, tant’è vero che - per offrirne una versione pedagogicamente riconducibile al credo cattolico - I promessi sposi sono stati amputati fin dall’inizio della loro lunga tradizione scolastica del “secondo tempo” che Manzoni sentiva invece come compimento necessario (etico non meno che stilistico, storico non meno che estetico: “il vero solo è bello”, secondo lui) del suo romanzo, la Storia della colonna infame. D’altra parte, il più umile di tutti, l’unico vero maestro di umiltà religiosa e umana all’interno del romanzo, quel personaggio potentissimo e straordinario che è padre Cristoforo (mentre la bellezza sfolgorante di Lucia non ha proprio niente di umile, almeno secondo i nostri paradigmi contemporanei) altri non è che un convertito, uno che è stato capace di levare mano assassina per una banalissima controversia di precedenza sul marciapiede: e la sua umiltà radicale, la sua umiltà senza se e senza ma, è dunque strumento di espiazione prima che proprietà naturale e si potrebbe quasi dire ontologica del soggetto in questione.

Umiltà sui generis

Quella del nostro Novecento letterario, in ogni caso, è un’umiltà molto sui generis, spesso mascherata, dissimulata o trasformata in punti di vista, sistemi di valori, rappresentazioni del reale impegnate sì a tratteggiare un “sublime dal basso” e a raffigurare il mondo dal punto di vista degli ultimi, ma al prezzo di uno scontro non di rado traumatico con le spinte contrapposte del narcisismo e della spettacolarizzazione, della secolarizzazione di tutti i valori ereditati dalla tradizione e di una distrazione spesso imposta dai totalitarismi e dai razzismi terribili che si sono succeduti nel Novecento e che forse non sono ancora stati espulsi dai nostri consorzi civili.

Image 081Qualche esempio: non umili, ma umiliati, offesi e soprattutto vinti (che è tutt’altra proprietà rispetto a una disposizione d’animo autenticamente umile) sono i pescatori di Verga o i cafoni di Silone; umoristici, dunque sdoppiati e straniati, i soggetti solitari e protoborghesi di Pirandello; inetti e - come nel caso del più efficace, Zeno Cosini - inetti cattivi gli ego psicoanalitici di Svevo. Non umili ma annichiliti e ridotti a cosa disanimata sono i condannati al lager di Primo Levi; allegorici e disincarnati, fiabeschi e asociali, agiscono invece i baroni rampanti, i cavalieri inesistenti o i visconti dimezzati di Calvino; e ricchi di una magia atavica e carnale, onirica e viscerale, sono i personaggi femminili dell’opera oggi attualissima della Morante. Allo stesso modo, è difficile riportare a un atteggiamento di umiltà la creaturalità irriducibile a regole sociali degli accattoni o dei ragazzi di vita pescati da Pasolini nel Lumpenproletariat delle borgate romane, negli anni del fallace boom economico degli anni Cinquanta; e parimenti tutt’altro che umili - plasmati come sono a partire da una matrice di geniale cortocircuito fra Dostoevskij e D’Annunzio - sono gli indifferenti esistenzialisti e annoiati di Moravia; così come comici, disadattati cronici ed emarginati smarriti si profilano i lunatici, i viaggiatori disorientati e i soggetti da polisportiva o da bar sospesi fra vita e morte, ricordo e smarrimento, cui hanno dato magistralmente vita Gianni Celati, Ermanno Cavazzoni e Daniele Benati.

Accogliere l’altro nel silenzio

Se poi si getta uno sguardo anche fugacissimo alla poesia, si ha una sensazione ancor più precisa di umiltà dissimulata, mascherata o problematica - oltre l’irruzione dell’umile parlato nel discorso in versi - quando si ha a che fare con i soggetti lirici a volta a volta narcisistici, superficialmente titanici o esistenzialmente prigionieri, che sono protagonisti e parlanti in prima persona nella lirica novecentesca. Umile sì, eppure ambiguamente fanciullino, perché sospinto ai confini comunicativi della parola, è il soggetto onomatopeico di Pascoli, indagato oltre la soglia caotica e notturna dell’inconscio. Umile ma insieme «uomo di pena» e «docile fibra dell’universo» nonché spedito al massacro delle trincee della Prima guerra mondiale, è il fantaccino senza onore né gradi, senza tetto né legge, che sillaba la tesissima, spaccata parola del Porto sepolto di Ungaretti. E umile senz’altro, però soprattutto cerimonioso, è il viaggiatore dentro l’aldilà che Giorgio Caproni ha genialmente forgiato negli ultimi trent’anni della sua storia poetica: un esempio straordinario di grazia e di leggerezza implacabilmente funebri, eppur capaci di compiere un transfert di autentico sublime nel lettore coinvolto. Al giorno d’oggi, forse, il massimo dell’umiltà letteraria coincide, per gli scrittori, con la capacità di accogliere il punto di vista dell’altro nei propri testi; e, per i lettori, con una disponibilità autentica e pur difficilissima a quel silenzio interiore che - aprendosi a una voce quasi sempre più sensibile, più colta e più profonda della propria - permette di raggiungere uno stato di autentico godimento spirituale.