Passi coi piedi per terra

Fatti di terra, impariamo da lei l’umiltà

di Fabrizio Zaccarini
formatore dei Postulanti cappuccini a Santa Margherita Ligure

Image 057Uno, dieci, cento passi

Camminare. Un passo, un altro passo e uno ancora. Dieci, cinquanta, cento passi e molti di più se voglio arrivare alla meta. Dove sto andando non importa dirlo. Io sono in cammino, tanto basta. Homo viator… si dice così, no?

Sono partito senza certezze, come tanti altri, in solitudine, perché non solo “quando si muore”, anche quando si cammina si… cammina “soli”. Ho dei compagni, sì, ma non li ho scelti, sono quelli che, senza consultarmi, mi ha donato Colui che è via, verità e vita. Esposto all’afa e alla pioggia, talvolta al freddo, cammino, faccio fatica e sudo. Partendo ho messo nello zaino la disponibilità a ricevere molte e salutari lezioni d’umiltà. Tra le altre questa: “mio è soltanto il suolo che ora calpesto”. Attraverso molti posti e incontro molte persone, ma nessun luogo e nessuna persona mi appartiene, se non quel po’ di terra che, momentaneamente, sostiene la pianta del mio piede. Quella, finché la occupo, è per me patria e àncora di salvezza dalla perdita di me stesso. Il suolo che mi sostiene… una certezza minimale, ma più fondante di quanto possa sembrare.

Non siete convinti? Argomentiamo allora sub contraria specie. Fate una gita in Emilia o all’Aquila dove il suolo ha ballato come uno shaker nelle mani di un barman e chiedete a chi era presente l’effetto che fa. Con i muri ogni certezza vacilla e la paura assale dritto dritto alla gola. Se il suolo, che per definizione è solido, si fa “liquido” e mosso come il mare d’inverno, allora io, che in quanto pellegrino sono terrestre, non so più chi sono. Che la terra sia parte determinante della nostra identità di uomini, anche le parole lo suggeriscono. L’humus mi fa essere homo e la Bibbia, benché scritta in ebraico e non in latino, conferma: «Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo» (Gen 2,7).

Pelle su pelle

Ma cos’è l’humus? Wikipedia (un pellegrino nel 2013 può avventurarsi anche nella foresta di internet!) risponde che «l’humus rappresenta la parte più attiva, sotto l’aspetto chimico e fisico, della sostanza organica del terreno». Eccoci al confine tra geologia, chimica e agricoltura ed è un bene. Da pellegrino so che la terra ci sostiene, ma gli ortolani che aiuto per ricambiarli dell’ospitalità mi insegnano che, per apprezzare la fecondità materna della terra, prima bisogna piegarsi maternamente verso di lei. Infatti, come una madre si piega sul figlio che vuole nutrire, coccolare o rimproverare, così chi diserba, zappa e raccoglie ogni volta si china, facendosi un po’ più piccolo nel corpo e, forse, anche nel cuore. L’umiltà (di nuovo l’humus è protagonista) mi appare via preliminare per l’assunzione delle responsabilità che la vita assegna e, allo stesso tempo, accettazione del limite di cui sono portatore.

Image 062Ieri in una tasca interna dello zaino ho trovato la fotocopia ingiallita di un appello a favore del suolo che il 6 dicembre 1990 Ivan Illich e alcuni filosofi amici suoi lanciarono ad un convegno. Vi si diceva tra l’altro: «Per virtù intendiamo la forma, l’ordine e la direzione dell’azione plasmata dalla tradizione, delimitata dal luogo e qualificata dalle scelte effettuate entro l’ambito abituale di esperienza di ciascuno; intendiamo quella pratica reciprocamente riconosciuta come il bene in una cultura locale condivisa che rinforza la memoria di un luogo». È così che mi vien da pensare a quel collega pellegrino che si chiama Francesco d’Assisi e al suo percorso di conversione: iniziato nella sua città di origine sotto il segno del conflitto con il padre e con molti suoi concittadini, lì si è compiuto sotto il segno della comune ammirazione. Mi dicono che morente abbia chiesto di essere deposto nudo sulla terra nuda e di essere lasciato così, una volta morto, il tempo necessario a percorrere comodamente un miglio, come un neonato sul ventre della madre che l’ha appena partorito, pelle su pelle.

Non è un caso che muoia così chi con instancabile gagliardia ha combattuto la tendenza all’espansione appiccicaticcia e onnivora degli aggettivi possessivi “mio” e “nostro”. Penso sia l’umiltà povera di chi non si possiede più che abbia concesso a Francesco di riconoscere ciò che di nostro c’è sul serio. Dice, infatti, «sora nostra madre terra che ne sustenta» e «nostra sorella morte corporale dalla quale homo vivente non po’ skappare». Non più soggiogato dal sogno autoreferenziale delle armi e degli eroi, ora con gioia canta «tue so’ le laude la gloria l’honore et onne benedictione» e la morte ha per lui lo sguardo buono di una sorella. Amo il Cantico di frate sole, l’ho imparato a memoria e, camminando, lo prego silenziosamente. Talvolta nei boschi lo canto a squarciagola. Nessuna tristezza è in grado di resistere a questo canto fino in fondo.

Pellegrini o forestieri

Una, la terra, è la casa dalla quale vengo e veniamo, la stessa alla quale vado e andiamo. Non il pianeta terra, di cui solo l’astronauta dalla navicella spaziale fa esperienza, ma la terra che mi dà il pane buono e accoglie in cambio liquami maleodoranti lasciandosene fecondare. L’appello di Illich continua così: «I nostri legami col suolo - le relazioni che limitavano l’azione rendendo possibile la virtù pratica - sono stati recisi allorché il processo di modernizzazione ci ha isolati dalla semplice sporcizia, dalla fatica, dalla carne, dal suolo e dalle tombe». Quando il mio itinerario mi fa attraversare qualche centro metropolitano ci sono due spettacoli che diventano per me inattesi e impenetrabili motivi di meditazione. Le discariche con le loro montagne di rifiuti irriducibili alla decomposizione e le auto imbavagliate nel traffico. Se volete, eccovi un punto di vista stra-vagante: a causa del potere magico di cui li ammanta il nostro immaginario brutalizzato dalla pubblicità, abbiamo bisogno di troppi beni ambigui, se non fasulli. Mortifichiamo così il legame con il suolo, che ossessivamente cementificato o abbandonato all’incuria irresponsabile, frana sotto i nostri piedi, e con la morte che comunque viene a dirci di chi abbiamo davvero bisogno. Questo modo di vivere, posso dirlo?, non ha i piedi per terra.

Recuperare consapevolezza di questa duplice e intima connessione è indispensabile per contrastare il deficit di umiltà che ci affligge. Forse ci accorgeremmo, così, che lo ius soli rappresenta, per l’Italia multietnica di oggi, il livello minimale del diritto di cittadinanza. Non è italiana a tutti gli effetti una persona nata a San Giovanni in Persiceto, che parla italiano e studia la stessa storia e letteratura dei suoi compagni pur avendo genitori senegalesi o statunitensi? Quale paura ci vieta di accettarlo? Vivremo meglio sul suolo delimitato dai confini patri se troveremo la strada per essere solidali senza essere sprovveduti. Sulla strada ho imparato che nell’ordito della vita le trame dell’esistenza umana, per quanto diverse, nel racconto di sé e nell’ascolto dell’avventura altrui, si fecondano incrociandosi.

È ricca la tela intessuta di fili multicolori, raffinato e affascinante un ricamo lavorato da molte mani. Quel Francesco che piace tanto mi pare lo dicesse spesso che su questa terra siamo tutti pellegrini e forestieri. Perché gli uni agli altri vicini non mettiamo i piedi per terra? Io, intanto, tolgo il disturbo e riprendo il cammino.