Cultori del cerchio fraterno
La vera umiltà ci fa essere noi stessi e aiuta gli altri ad essere se stessi
di Nello Dell’Agli
teologo e psicoterapeuta
Cos’è e cosa non è
Ci può aiutare dire anzitutto cosa non è umiltà. Umiltà non è debolezza, intesa quale mancanza di forza interiore e relazionale; non è nemmeno vittimismo (sottile modo di colpevolizzare gli altri) o sottomissione legata a un complesso di inferiorità, né va intesa come rinuncia al desiderio di autorealizzazione con conseguente perdita di energia vitale; analogamente non significa bassa considerazione di se stessi, ritenersi incompetenti o di non valere nulla; non è nemmeno repressione del bisogno di mettersi in luce (perché mai rinunciare al piacere della luce?).
E nel rapporto con Dio non è certo, in una visione cristiana, disprezzo dell’umano in nome di un dio tiranno geloso della sua grandezza: come amare chi ti vuole schiacciare o dominare?
Che cos’è allora l’umiltà? Vediamolo nel rapporto con gli altri, con se stessi e con Dio.
Nel rapporto con gli altri, l’umiltà è figlia di una capacità di affermazione integrata con la capacità di ascoltare sinceramente gli altri, con rispetto ed interesse; «gareggiate nello stimarvi a vicenda»: a questo ci invita l’apostolo Paolo (cf. Rm 12) e la stima del pensiero altrui e dei vissuti altrui è ingrediente fondamentale dell’umiltà; quando gli altri (marito, moglie, confratelli, consorelle, amici, etc.) hanno un pensiero diverso dal nostro, occorre accoglierlo e ritenere che esso sottolinea un aspetto della realtà che il nostro pensiero non arriva a cogliere; come quando, guardando una cattedrale da diverse prospettive, ognuno di noi percepisce qualcosa dell’unica bellezza. Così, umiltà è situarsi dentro le relazioni in spirito di confronto e di apprendimento e imparare dentro il cerchio fraterno a non ritenerci né migliori né più importanti degli altri.
L’umiltà, di conseguenza, è figlia anche della capacità di mettersi in discussione: chi stima gli altri in modo incondizionato, si lascia attraversare dalla loro diversità, dalle loro critiche, dalle loro obiezioni, dalla loro aggressività e ne fa oggetto di riflessione sincera, autentica e duratura. Questo presuppone la rinuncia a quelle forme di violenza che sono il giudizio, la critica cattiva e il disprezzo che nascono, a ben vedere, dal desiderio di abbassare e distruggere gli altri per innalzare se stessi: «Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri» (Pt 5,5).
Per realizzarci nella fraternità
Così, l’umiltà è capacità di incanalare il proprio bisogno di autorealizzazione e di mettersi in luce dentro la realtà della fraternità; non si tratta di rinunciare all’energia vitale che scorre in ognuno di noi né al desiderio di luce che ci pervade (un raggio di sole o un riflettore per ciascuno), ma di imparare a vivere tutto questo dentro la realtà fraterna, in modo che per ciascuno ci sia spazio di realizzazione e possibilità di luce; ecco, potremmo dire, l’umiltà (da humus, terra) ha a che fare con il rinunciare ad essere “l’unico dio” o “uno tra i pochi déi”, per divenire, invece, cultori del cerchio fraterno in cui ognuno possa avere spazio espressivo e luce. Questo presuppone la rinuncia alla ricerca del primeggiare, in competizione con gli altri, per volere la gloria di ciascuno, noi compresi.
Umiltà significa poi andare nelle periferie esistenziali (secondo l’espressione di papa Francesco) per imparare dai poveri e fare esegesi della vita e delle Scritture a partire dal loro modo di vedere le cose; i poveri, i feriti, i provati dalla vita (quando abbiamo rinunciato ad usarli per la nostra vanagloria, a servircene per il nostro bisogno di successo) sono la ricchezza che l’esistenza ci riserva per approssimarci al mistero, deponendo orgoglio ed arroganza, scoprendo che tutti siamo lebbrosi, solo che alcuni hanno già la dignità di mostrare le loro ferite, altri tendono a coprirle con abiti lussuosi.
Così i poveri, tra le altre cose (e qui veniamo a considerare l’umiltà nel rapporto con noi stessi), ci insegnano a riconciliarci con la nostra parte oscura, ad accogliere con amore i nostri limiti, i nostri errori, volendo trarre lezione da essi; infatti, un’accoglienza che rinunci a imparare diviene autogiustificativa (potremmo dire misericordia senza discernimento), mentre l’apprendere per migliorarsi senza accogliersi incondizionatamente costruisce su basi fragili (discernimento senza misericordia). Possiamo essere tentati di rimuovere le nostre insufficienze e carenze invece di accoglierle con amore, tentati da una bellezza tanto ideale quanto irreale.
Trapiantati nel terreno della Parola
Nel rapporto con Dio, umiltà significa lasciarsi salvare dal Dio mite ed umile: riconoscere il disperato bisogno di Lui, le nostre stanchezze ed andare ogni giorno da Lui, scegliendo di unirci a Lui come coniugi, ovvero come coloro che portano lo stesso giogo (cf. Mt 11). Infatti, il nostro Dio, rivelato da Gesù Cristo, non è un tiranno - ne accennavamo - geloso della sua grandezza, ma l’Uno umile che vuole stare in mezzo a noi come colui che serve; così splende la sua gloria, nell’abbassarsi, nel servirci, nel dare la vita perché noi cresciamo e maturiamo e arriviamo alla Sua maturità. Ciò che ci è stato pienamente rivelato nello stile relazionale del Cristo, nel suo vivere e morire in nostro favore, è un processo iniziato fin dalla creazione: farsi piccolo perché noi potessimo avere vita e libertà: il mistero dell’agnello immolato fin dall’inizio del mondo! Allora umiltà è, da una parte, riconoscere la nostra povertà e piccolezza creaturale e, dall’altra, voler crescere e divenire genitori adulti (sia in senso fisico sia in senso spirituale) che “si contraggono”, che servono per prendersi cura, che danno corpo e sangue perché i figli abbiano vita e libertà. «Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio» (LOrd II, FF 221), ci invita san Francesco meditando sul mistero eucaristico; e, guardando al Padre mite ed umile, anche noi possiamo innamorarci di mitezza ed umiltà. Così, contrazione umile ed espansione gioiosa si integrano profondamente e ci permettono di divenire custodi della vita: proprio quando umilmente ci facciamo piccoli al servizio degli altri, ci stiamo espandendo, dando il meglio di noi stessi e portando a compimento la nostra umanità: «Umile ed alta più che creatura».
Umiltà è lasciarsi raggiungere dal Dio mite ed umile e lasciarsi trapiantare da Lui (cf. Sal 1) nel terreno della Parola, dentro la fraternità, nel Regno dei poveri. Alla scuola della Parola impariamo la misura della nostra umanità: lasciamo che, oscillante com’è tra senso di inferiorità e desiderio di rivincita, essa sia guarita; lasciamoci rapire da una Sapienza ben più grande di noi che invita a mettersi ogni giorno in cammino. Trapiantati nella fraternità, impariamo ad essere profondamente noi stessi, godendo del fatto che ognuno attorno a noi possa essere se stesso, come alberi che stanno presso lo stesso rivo di acqua e come redenti che fanno parte della stessa assemblea; così rinunciamo ad essere l’albero che si agita sopra gli altri, per gustare, invece, i nostri frutti specifici e quelli altrui. Portati nelle periferie esistenziali, apprendiamo a farci raggiungere dalla luce regale dei poveri e lasciamo che l’empio altezzoso dentro di noi sia pula al vento, destinata a perdersi.
Dell’Autore segnaliamo:
Parola, Eucaristia e guarigione,
EDB, Bologna 2008, pp. 224