Non tradendo il contenuto del discorso

Il sermo humilis dei Padri della Chiesa usa lo strumento della retorica con proprietà

di Giuseppe Scimè
docente di Patristica alla Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna

Image 028Res et verba

Dall’Oriente all’Occidente, dalle antiche città di Atene e di Roma, dalle remote civiltà greca e latina la parola articolata in un ragionamento ed in un discorso (sermo) ha via via richiesto un’attenzione sempre più importante.

Gli antichi hanno capito molto presto che il pensiero si costruisce con parole e che esso non serve se non viene comunicato dalla nostra mente agli altri esseri umani. Del resto l’uso della ragione, che distingue gli umani dagli animali, si dimostra dall’autocoscienza espressa mediante gesti e parole, res et verba. Parlare bene è progressivamente percepito nelle culture elevate un’arte da coltivare, l’ars bene dicendi. Se oggi un discorso retorico indica qualche cosa di inutilmente vacuo, quando non addirittura dannoso perché artificioso, per gli antichi ogni discorso va attentamente elaborato nella mente ed espresso con parole non inventate a caso. Anzi, la inventio rappresenta il primo di cinque momenti nel quale, dovendo preparare un discorso, trovo le cose da dire. Successivamente le dispongo in un ragionamento (dispositio), le adorno con figure retoriche (elocutio), imparo a memoria il mio discorso (memoria) e infine lo declamo (pronuntiatio). Aristotele e Cicerone, come molti altri celebri retori, parlavano di tre generi fondamentali del discorso: quello giudiziale espresso dall’avvocato in tribunale quando difende o accusa un imputato, quello deliberativo rappresentato dal politico che in piazza consiglia o dissuade l’assemblea popolare, ed infine quello epidittico, col quale il retore di professione viene incaricato di lodare o rimproverare una persona pubblica. Inoltre, nei manuali degli oratori professionisti, si raccomandava di distinguere gli stili, adattando il linguaggio ai diversi contesti ed interlocutori: nel sermo humilis la situazione è quella degli allevatori dove tra pastori si parla di greggi e di piante; nel sermo mediocris ci troviamo tra coltivatori impegnati dal pensiero dei campi e dei frutti; nel sermo gravis i militari trattano di cavalcature per la guerra, di armi da costruire e di accampamenti da espugnare. In ogni situazione occorre essere ben coscienti di tutto: cosa dire, come dirlo, perché dirlo e con quale obiettivo.

I padri che furono figli

Non è una scoperta di oggi ma oramai di qualche decennio di studi patristici e di antichità cristiane l’acquisizione di un fatto assai semplice: anche i Padri della Chiesa, cittadini ideali non di Atene e di Roma ma soprattutto di Gerusalemme, prima di diventare Padri che generano secondo la fede, sono stati figli, bambini, e sono andati a scuola, imparando dai libri e specialmente dai maestri a leggere, scrivere e far di conto, come pure, in stadi avanzati del loro iter studiorum, ad occuparsi di retorica e di filosofia. Non ci si poteva improvvisare teologi senza un lungo ed elaborato percorso di studio, oltre che, naturalmente, di preghiera e di penitenza, a stretto contatto col proprio vescovo e la propria comunità. I Padri, uomini profondamente spirituali, sono nati in tale contesto culturale: i loro scritti non sono minimamente comprensibili senza fare riferimento agli stili di vita e di pensiero appresi in ambienti fortemente acculturati.

Ciò premesso, i nostri lettori non dovrebbero stupirsi del fatto che sant’Agostino abbia composto un vero e proprio manuale per l’oratore cristiano: nel De Doctrina Christiana, composto dal 396 e completato negli ultimi anni della sua vita, conclusa nel 430, Agostino parla di come fare a spiegare la Bibbia. Mentre nei primi tre libri Agostino tratta delle obiettive difficoltà legate ai particolari linguaggi della Sacra Scrittura, nel quarto e ultimo si occupa del modo di esporre ai fedeli gli insegnamenti appresi dalle letture bibliche. È qui che troviamo la ripresa sistematica delle regole fondamentali della retorica classica applicate al testo cristiano per eccellenza, la Bibbia.

Leggiamo al riguardo un passo significativo dell’opera di Agostino (IV,17.34):

«Pertanto colui che nel suo dire si prefigge di persuadere con ogni sforzo ciò che è buono, senza disprezzare nessuna delle tre cose, cioè insegnare, piacere e convincere, preghi e si dia da fare perché, come abbiamo detto, venga ascoltato con intelligenza, volentieri e con docilità. Che se riesce a far questo adeguatamente e convenientemente, meriterà il nome di persona eloquente, anche se non seguirà l’assenso nell’uditore. Sembra inoltre che a queste tre finalità, cioè insegnare, piacere e convincere, si riallaccino anche le altre tre elencate da quel celebre autore di eloquenza romana quando diceva: “Sarà dunque eloquente colui che saprà dire le cose piccole in tono dimesso, le cose modeste in tono moderato, le cose grandi con eloquenza solenne”. È come se volesse aggiungere anche le altre tre cose e così spiegasse la stessa e identica massima dicendo: Sarà dunque eloquente colui che nell’insegnare sa dire le cose piccole in stile dimesso (parva summisse), per piacere sa dire le cose di media levatura in tono moderato, per convincere sa dire le cose grandi con eloquenza solenne».

Image 030Persuadere per amare

Come si evince dal testo di Agostino, insegnare (docere), piacere (delectare) e convincere (flectere) sono i tre obiettivi fondamentali dell’ars persuadendi, cioè dell’arte retorica, un’arte non solo vietata o tollerata ma, al contrario, assolutamente necessaria da acquisire e coltivare anche da parte dei cristiani, ed a maggior ragione indispensabile per chi tra di loro è chiamato per ufficio all’insegnamento ecclesiale. Il contesto culturale dell’odierno Occidente, tra pensiero debole e società liquida, ci rende la proposta patristica particolarmente ostica, per non dire quasi inaccettabile. Secondo i Padri, se non vuoi convincere il tuo interlocutore, significa che non vuoi abbastanza bene a lui e non sei sufficientemente convinto tu della verità da comunicare, vuol dire che sei rispettoso dell’altro fino ad essere debole e pusillanime. In altre parole, se non vuoi convincere gli altri significa che non hai sufficiente fede tu stesso, che non ami adeguatamente la verità, che non sei preoccupato della salvezza tua e di quella degli altri ai quali Dio ti manda. Da tali premesse ideali, mediante la citazione di Cicerone, sant’Agostino afferma che il contenuto è più importante della forma, la sostanza conta di più delle figure retoriche. Perciò pur di comunicare la verità, cosa che per noi cristiani è del tutto irrinunciabile, occorre osservare i precetti della retorica senza farsene dominare, occorre cioè acquisire ed utilizzare gli strumenti che cultura e Provvidenza ci hanno messi a disposizione. Non è un caso, in questo senso, che gli stessi agiografi usino e trasferiscano nel linguaggio biblico tutti i generi e gli stili linguistici del loro tempo, che Agostino diligentemente rileva nel De Doctrina Christiana. Del resto, anch’essi sono nati e sono andati a scuola, come qualche secolo più tardi i Padri della Chiesa. In particolare l’umiltà, scrive Agostino, è la capacità di «dire le cose piccole in stile sommesso», parva summisse. Sotto questo aspetto, l’ornato va ridotto il più possibile, per essere chiari ed efficaci, non tradire il contenuto e non ingannare il destinatario del discorso.

Segnaliamo il volume:

Sant’Agostino
La dottrina cristiana
Paoline, Milano 1989.