Questione di stile

Dopo giustizia e misericordia, l’umiltà ci ricorda di essere fatti di terra

di Lidia Maggi
teologa e pastora della Chiesa Battista in servizio a Varese

Image 016Frammenti per il tutto

Ci sono frasi che condensano in poche parole il senso di un’esperienza. Come gli stemmi delle case nobiliari, che possiamo consultare nei libri di araldica. Come la lettera miniata con cui gli antichi manoscritti danno inizio al racconto. Sono frammenti che evocano il tutto.

Il profeta Michea condensa in un unico versetto l’intero percorso biblico. Al capitolo 6 del suo libro, troviamo queste parole: «O uomo, Egli ti ha fatto conoscere ciò che è bene; che altro richiede da te il Signore, se non che tu pratichi la giustizia, che tu ami la misericordia e cammini umilmente con il tuo Dio?» (Mi 6,8).

L’affermazione divina giunge a risposta di una precedente domanda umana: «Con che cosa verrò in presenza del Signore e mi inchinerò davanti al Dio eccelso?» (6,6). Ovvero, come fare i conti con Dio? È solo questione di porre dei gesti religiosi, come i sacrifici (v. 7)? La domanda è seria: come ci si pone di fronte al mistero della vita e al Dio che può svelarcelo?

Prima ancora di entrare nel dettaglio, già ad una prima lettura intuiamo la portata decisiva dell’affermazione. Il profeta, a nome di Dio, si rivolge direttamente all’essere umano, in quanto tale, a prescindere dagli aggettivi che ne specificano il genere, l’appartenenza etnica, la collocazione sociale, le qualità etiche. A quest’essere umano è stato fatto conoscere il bene. Perché Dio non è muto: si rivela, parla; a chi si interroga, Egli svela il mistero del mondo, il senso del nostro esistere. Che Dio parli è già di per sé sorprendente. Non dovremmo lasciarci sviare da quell’assuefazione religiosa che spegne lo stupore per questo tratto decisivo del divino.

Nei racconti dei chassidim si legge di un futuro rabbi, ancora scolaro, incapace di seguire le lezioni. Ogni volta che il maestro leggeva nella Scrittura: «E Dio disse», rabbi Sussja era subito rapito fuori di sé e gridava e si muoveva così selvaggiamente che disturbava e bisognava condurlo fuori. Allora se ne stava all’ingresso, batteva contro le pareti e gridava: «E Dio disse, e Dio disse…».

Cambia tutto se Dio viene inteso soltanto come un essere trascendente, anonimo e muto, disponibile alle innumerevoli proiezioni con cui gli umani, da sempre, hanno plasmato il divino a propria immagine e somiglianza; oppure se Dio dice, si autocomunica, ci rivela il suo mistero.

Il cammino della giustizia

Image 020E per le Scritture, Dio non solo parla e comunica: addirittura, parla a me. La Parola è voce che interpella personalmente, che mi coinvolge nel suo progetto. La fede nasce dall’ascolto. E dunque, credere significherà essere raggiunti dalla voce divina che irrompe nella nostra esistenza; pensare la vita come vocazione.

Per Michea la voce divina che interpella l’umanità indica il cammino della giustizia e della misericordia. È la via percorsa da Dio stesso. Nei versetti che precedono il nostro testo, Dio rivendica di aver agito con giustizia e misericordia nei confronti di Israele. È Lui che lo ha liberato dall’ingiusta schiavitù in terra d’Egitto, muovendosi a compassione nei suoi confronti (6,4). Dio non si comporta come gli altri re, preoccupati solo di se stessi e di consolidare il proprio potere, spaventati della libertà acquisita grazie all’intervento divino (6,5).

Strada difficile, quella che ha per bussola sia la giustizia che la misericordia: sembra volere tenere insieme gli opposti. La tradizione ebraica ne è consapevole e parla di Dio come di un re che siede su due troni: quello della giustizia e quello della misericordia. Se sedesse solo sul trono della giustizia, tutta l’umanità sarebbe condannata, poiché nessuno può dirsi giusto al suo cospetto. Viceversa, se governasse unicamente dal trono della misericordia, la terra sarebbe in balia del caos, dal momento che tutto viene tollerato. Ecco, dunque, che il Dio d’Israele non sta mai fermo, dovendo continuamente spostarsi da un trono all’altro.

Lungo questa via siamo chiamati anche noi a muovere i nostri passi. Facendo nostra la passione di Dio per questa nostra storia, nella quale ristabilire la giustizia delle relazioni e creare con gli altri legami di amore, come una madre che ama visceralmente i propri figli.

Tutta la Scrittura ci comunica questa grammatica dell’umano: siamo stati creati “a sua immagine e somiglianza” per condividere il sogno di Dio, praticando la giustizia e amando la misericordia.

L’uso improprio dell’umiltà

Vola alto, Michea. Non si limita a fornire buoni consigli, a suggerire un’etica del minimo indispensabile. E solo dopo aver enunciato la visione del Regno di giustizia e misericordia, ecco che aggiunge l’ingrediente dell’umiltà: cammina umilmente con il tuo Dio.

Noi, per lo più, siamo attenti a che cosa dice la Bibbia. Andiamo subito alla morale del racconto, mettiamo in evidenza il tema affrontato. Ma per ascoltare in profondità la Parola di Dio attestata nelle Scritture, dovremmo porre attenzione anche (soprattutto!) al “come” viene affrontata una determinata questione. Fa la differenza parlare in prima battuta di umiltà. Agli orecchi del lettore, essa suona inevitabilmente come un invito a non osare troppo, a volare basso, al livello della terra, di quell’humus da cui trae origine il nostro vocabolo. Del resto, quanti nelle Chiese hanno identificato l’umiltà con la rassegnazione, l’hanno confusa con l’umiliazione, l’hanno usata per mettere a tacere pretese pur legittime…

L’uso improprio dell’umiltà funziona da liquido di contrasto per cogliere la mossa geniale di Michea. Che parla di camminare umilmente con Dio, solo dopo avere enunciato il progetto ambizioso che mette in moto i passi del credente. Introdurre l’umiltà dopo la giustizia e la misericordia significa liberarla da quel groviglio di sentimenti che spengono le passioni e deprimono la dignità del nostro esistere. L’umiltà entra in gioco in seconda battuta, come avverbio deputato ad indicare lo stile. Il che non significa affatto che l’umiltà non sia importante. Nella Bibbia essa traduce la consapevolezza di essere creature fatte di terra. Indica quel senso del limite che rende umana la nostra esistenza, liberandola dalla pretesa diabolica di voler essere noi Dio (Gen 3) ed aprendola alla relazione con gli altri (“non è bene che l’essere umano sia solo”). È proprio facendo nostro questo stile che possiamo condividere quel sogno di giustizia e misericordia, altrimenti tradito per affermare il nostro piccolo (ma dispotico!) io.

Come Mosè, che ha ricevuto la Legge della giustizia e della misericordia ed ha guidato il suo popolo per l’arduo sentiero della libertà, «un uomo molto umile, più di ogni altro uomo sulla faccia della terra» (Num 2,3).

Dell’Autrice segnaliamo:

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Quando Dio si diverte: la Bibbia sotto le lenti dell’ironia
il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2008, pp. 132