Viviamo in una società multietnica e multiculturale: flussi migratori e globalizzazione hanno portato mutamenti della geografia sociale. Gruppi di persone appartenenti a culture e tradizioni molto differenti convivono assieme, mentre prima erano disposti in spazi geografici separati. Uno dei fenomeni macroscopici conseguenti a questa nuova situazione è il pluralismo religioso. È una realtà di cui ciascuno di noi fa quotidianamente esperienza: una realtà di problemi certo, ma anche di grandi opportunità, sulla quale è importante riflettere per risolvere i conflitti e costruire un futuro di vita comune.

Barbara Bonfiglioli

La sapienza in un battito d’ali

Le difficoltà di essere credenti in un mondo in fuga

di Brunetto Salvarani
docente di teologia ecumenica alla Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna

Image 242Identità terrestre

Quasi tre decenni fa, un religioso capace di sguardo lungo come Ernesto Balducci scrisse un libro, bello quanto profetico, sull’uomo planetario.

Egli anticipava un altro pensatore importante, Edgar Morin, che sul crinale del terzo millennio dell’era cristiana ha riflettuto sui sette saperi necessari all’educazione del futuro. Al quarto posto, il sociologo francese mette l’insegnamento dell’identità terrestre. A suo parere - ed è davvero difficile dargli torto! - il destino ormai planetario del genere umano è una realtà incontestabile, anche se spesso ancora sottovalutata nelle nostre agenzie educative.

Abbiamo compreso, in ogni caso, che a questo punto della loro storia tutti gli uomini, spinti dagli stessi problemi di vita e di morte, attraversano un comune destino: anche se, sulla scorta dell’immaginario favorito dai tragici eventi dell’11 settembre 2001, siamo comunemente portati ad enfatizzare le loro differenze (che ci sono, naturalmente), fino a dichiarare le culture e le religioni irriducibili e incapaci persino di dialogare reciprocamente. Sì, stiamo sperimentando - almeno in ciò che chiamiamo “Occidente” - l’angoscia profonda di vivere in «un mondo in fuga» (Anthony Giddens)! L’invito moriniano di educarci alla “terrestrità” può rivelarsi, così, il punto di partenza dell’educazione a una cittadinanza “glo-cale”, responsabile e capace di far fronte alle grandi trasformazioni in atto. Ma anche il punto di partenza per un’educazione al dialogo interreligioso, inteso come una forma fondamentale di umanizzazione del nostro pianeta, sospeso fra un senso angusto di incertezza (Zygmunt Bauman), il percepirsi una comunità di rischio (Ulrich Beck) e il dominio delle passioni tristi di Miguel Benasayag e Ghérard Schmit. Eppure la prospettiva universalistica, affascinante quanto convincente (almeno ai miei occhi), fatica a farsi strada, soffocata dal predominio delle chiusure identitarie, dai localismi, dagli etnocentrismi e persino da nuovi tribalismi. Con una serie di conseguenze rilevanti, a partire dalla profonda criticità e forse dal tramonto di qualsiasi legame sociale significativo. Anche quando ci si piega, più o meno compassionevolmente, sull’altro, si rischia di utilizzare una forma di rapporto che pensa l’altro solo nella logica e nell’ordine vittimale: l’altro visto come fonte di emozioni e come esternazione della propria propensione alla solidarietà (meglio se da lontano e senza implicazioni politiche o strutturali) piuttosto che come persona… Ottenendo un classico esempio di tramonto dell’alterità ridotta a strumento della propria ricerca di sensazioni: un tramonto, scrive Jean Baudrillard, già ampiamente compiuto nell’ambito della comunicazione. Con la realtà non esiste più, perché sostituita dalla sua rappresentazione mediatizzata.

Image 249Le conseguenze della farfalla

Se questo è il tempo della globalizzazione imperante, è anche il tempo della presa di coscienza del fatto che dalla dimensione locale a quella mondiale non si danno fratture o salti, bensì piuttosto un continuum (cosicché ogni scelta locale ha vistose ricadute sul globale, e ogni scelta globale ha ricadute sul locale). L’idea che il battito d’ali di una farfalla a Hong Kong, ad esempio, abbia effetti sull’America Latina, è un’ovvietà, e la stessa crisi economico-finanziaria in atto ce ne ha fornito un esempio definitivo. Un paradosso evidente, da questo punto di vista, è che proprio il cristianesimo - da sempre portatore di un messaggio e di una prospettiva universali, alla lettera cattolici - ora che tale dimensione si è realizzata appieno, mostra una sorta di timore reverenziale nei suoi confronti, quasi un’incapacità di starvi dentro. Come se, finché la fratellanza universale e l’essere tutti fratelli e figli dello stesso Dio era un dato solo ontologico o teorico, non costituisse un problema: mentre ora, che dalla teoria si è passati alla realtà, i cristiani si sentono spiazzati. Quasi non sapessimo bene come comportarci, non avendo gli strumenti capaci di rendere pratici i progetti universali di cui abbiamo discusso, e teorizzato, per secoli.

Diversamente rispetto a un passato recente, infine, persino una rapida istantanea sulle religioni le fotografa come un processo in costante divenire: e attualmente è possibile senza problemi scegliere di essere atei, seguire un’ortodossia religiosa, cambiare confessione, ritagliarsi un proprio percorso all’interno delle religioni. Tutto appare più frastagliato, meno saldo rispetto a ieri, e i credenti, in genere, si sentono più liberi, pur se meno sicuri della loro direzione spirituale. Mentre il mosaico della fede si sta complicando giorno dopo giorno, creando perplessità, dubbi e solo talvolta anche (timide) speranze.

Crisi come responsabilità

Come leggere tale scenario da parte del cristiano? La Bibbia, quando vuole indicare le stagioni di crisi, le definisce giorni o tempi cattivi. Ecco, ad esempio, la Lettera agli Efesini: «Fate molta attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti ma da sapienti, facendo tesoro del tempo perché i giorni sono cattivi. Non siate sconsiderati, ma cercate di discernere qual è la volontà del Signore» (Ef 5,16-17). Il riferimento, inserito in una sorta di ritratto ideale del cristiano, è a momenti cupi in cui trionfano i malvagi e gli arroganti, e in cui i credenti sono costretti a soffrire: eppure non ne deriva alcun invito alla fuga o al disimpegno, ma piuttosto una spinta a impegnarsi di più e meglio. A resistere, declinando nell’oggi la fede come resistenza e capacità di dire no per salvaguardare il sì grande e non negoziabile al vangelo e ai diritti dei poveri. A vigilare, essere attenti, lucidi, critici. Perché, a ben vedere, «il tempo della crisi è occasione per apprendere e manifestare la sapienza cristiana» (Enzo Bianchi); per sperimentare appieno il kairòs, il momento presente (2Cor 6,2), e manifestare la differenza cristiana. Il che ci invita a uscire in modo responsabile dalla cultura del lamento, sempre subalterna, mostrando che l’oggettiva cattiveria dei tempi non ha l’ultima parola: facendo tesoro dell’oggi, del tempo presente, dando a esso un senso positivo, cogliendolo come occasione di discernimento della volontà di Dio. Ecco allora la crisi come responsabilità, come chance preziosa. Del resto, come si legge nel trattato Pirkè Avot della Mishnà, in un detto di rav Tarfòn: «La giornata è corta e il lavoro è tanto; ma non è tuo il compito di completare l’opera, né sei libero di esentartene».

Segnaliamo il volume:

Paolo Naso - Brunetto Salvarani (a cura)

Un cantiere senza progetto. L’Italia delle religioni

EMI, Bologna 2012, pp.368