Fioretti cappuccini

Come Frate Gioacchino ricordò la benedizione di sant’Antonio

Image 132Che i frati questuanti - i “cerconi” li chiamava la gente - siano una razza ormai ufficialmente estinta non è un mistero per nessuno. Ed è un vero peccato, perché erano proprio loro i migliori animatori vocazionali, nonché i principali responsabili di aver fatto definire i cappuccini “frati del popolo”. Non erano di molte parole, ma spesso una loro semplice battuta era più efficace del sermone di un vescovo o delle tante prediche che i suoi confratelli facevano in chiesa. Ma, comunque sia, la frittata è ormai stata fatta e a noi non rimane altro che tramandare la memoria di quei frati semplici ma sapienti nello stesso tempo.

Frate Gioacchino era un frate cercatore del convento di Imola. Il suo territorio di competenza era vastissimo, e lui lo batteva in tutte le stagioni alla ricerca della provvidenza per i fratini del seminario e per la numerosa comunità di frati del convento. Il suo lavoro lo svolgeva con passione, non badando alla fatica e al tempo che era costretto a trascorrere fuori delle mura conventuali, perché quello che gli interessava era portare in convento quanto più ben di Dio poteva raccattare, passando di casa in casa nella fertile e generosa campagna romagnola.

Contrariamene ad altri suoi confratelli che svolgevano simile attività, possedeva una parola fluida, con una erre leggermente moscia che attirava subito la simpatia di quanti lo ascoltavano, e, con la semplicità delle colombe e l’astuzia delle volpi, sapeva trovare la soluzione a tutti i problemi che gli si presentavano. Usava il linguaggio rustico dei contadini, povero ma ricco nello stesso tempo, che piaceva anche ai frati, abituati invece a parlare un linguaggio più elegante, ma privo di quel calore che scalda il cuore. Fin da bambino aveva parlato il dialetto romagnolo, che nemmeno gli anni della scuola erano riusciti a intaccare. La sua vita era la campagna e agli studi egli aveva sempre preferito la vita libera della gente semplice, con la quale poteva esprimersi con spontaneità, senza lasciarsi condizionare dai congiuntivi della lingua italiana. Non che non parlasse anche questa lingua, ma si avvertiva da lontano che le sue parole perdevano di sapore e di forza. Anche da frate mai dimenticò l’antico linguaggio del paese dove era nato, pur imbastardito con tante altre inflessioni dialettali, e con quello bussava alle porte delle case che, come per incanto, davanti a lui si aprivano sempre.

Una mattina frate Gioacchino mise in moto il suo furgone Guzzi tre ruote, scoperto, e si diresse verso le colline imolesi in cerca di uva. Si era agli inizi dell’autunno e le viti erano cariche di grappoli maturi: il tempo propizio per avere uva in abbondanza, da cui egli avrebbe tratto vino buono per i frati. Si fermò sull’aia di una casa, dalla quale usci la padrona, che ormai conosceva il brontolio del motore di quel Guzzone. Quella donna lo stava aspettando come tutti gli anni, e gli offrì di cogliere l’uva da un filare ancora non vendemmiato: «È uva buona! Buona anche per vino da messa». Ma subito aggiunse, perché Gioacchino era come uno di casa e conosceva tutti come le sue tasche: «Frate Gioacchino, le devo dare una bella notizia. Mia figlia si sposa! Ha ormai trent’anni e ormai stavamo perdendo ogni speranza». Frate Gioacchino, con la sua proverbiale sapienza, andò subito al sodo: «Sono contento! Ha preso bene? Un bravo giovanotto?». La donna stette un po’ esitante, come soprapensiero, poi confessò: «È un brav’uomo, ma… ho un dispiacere. Non si vuole sposare in chiesa, perché non crede in niente. Ma ci vuole pazienza». Frate Gioacchino non fece una piega: «Non si preoccupi, la mia donna. L’importate che sia un buon uomo e che le voglia bene. Dio è di manica larga!».

Stava per andare a vendemmiare, quando si sentì la voce di un canto. Era la figlia che stava arrivando in bicicletta. Frate Gioacchino le andò incontro tutto sorridente, ricambiato dal sorriso della ragazza. «Ho saputo una bella notizia - iniziò frate Gioacchino -. Era ora che prendessi marito! Va tutto bene?». «Sì, sì, frate Gioacchino, è un bravo ragazzo, e bello. Soltanto che non si vuole sposare con il prete, perché non è di chiesa». Frate Gioacchino ci pensò un po’ su, poi non riuscì a trattenersi, fidandosi della confidenza che aveva con la futura sposa: «Ai miei tempi anche le vacche prima di andare al guadagno (traduzione: «prima di andare al toro»), prendevano la benedizione di Sant’Antonio. Ma stai tranquilla. Cercate di volervi bene e lasciate fare al Signore».

Vendemmiata l’uva, frate Gioacchino ringraziò per tutto quel ben di Dio che aveva messo nel cassone del furgone e che profumava di paradiso, e rimise in moto il suo Guzzi per visitare altre case e trovare ancora altra uva. Trascorsero due mesi, e durante tutto questo tempo l’uva raccolta da frate Gioacchino era stata pestata e si era già trasformata in vino spumeggiante.

Image 138Un bel giorno, quando ormai i primi venti invernali cominciavano a lambire la campagna con il loro alito gelato, un uomo sulla quarantina tirò ripetutamente la maniglia che faceva suonare la campana del convento. Il frate che gli aprì chiese chi fosse, ma quell’uomo andò subito al sodo: «Mi devo sposare. Che cosa bisogna fare per sposarsi in questa chiesa?». Il frate non era molto esperto in norme matrimoniali, ma sapeva una cosa: «Nelle chiese dei frati non ci si può sposare, perché non sono parrocchie e il vescovo non dà mai il permesso». Ma quell’uomo aveva tutta l’aria di non darsi per vinto: «Io mi sposo solo nella chiesa di frate Gioacchino». «Allora vada dal vescovo. Se riesce a convincerlo…», gli rispose il frate, richiudendo la porta e pensando tra sé: «Se lo sogna che il vescovo gli dia il permesso. Qui non si sposa mai nessuno!».

Quando quell’uomo si presentò in vescovado, non si fece intimidire dal clima severo della Curia vescovile, e, contrariamente alle previsioni di quel frate, il vescovo si trovò costretto a cedere alle sue argomentazioni: «Io mi sposo solo nella chiesa di frate Gioacchino. Io non sono tanto di chiesa, ma frate Gioacchino ha detto che anche le vacche, prima di andare al guadagno, prendono la benedizione di Sant’Antonio. Non voglio che la mia donna sia meno di una vacca!». In cambio però il vescovo si fece promettere da quell’uomo, che lavorava nella raccolta dei rifiuti urbani, di collocare un cassonetto vicino alla curia vescovile, per l’Opera Recupero delle Missioni. Una mano lava l’altra…

Un mese dopo, nella chiesa dei cappuccini di Imola, si celebrò il matrimonio, peraltro molto sobrio, con un chierichetto d’eccezione: frate Gioacchino, con tanto di cotta e che rispondeva alla messa con la sua erre moscia. La sposa era raggiante e lo sposo si era confessato di tutte le scappatelle fatte fin da ragazzo, e fece anche la comunione. Così la sposa ebbe la benedizione nuziale, ben altra di quella che si dà alle vacche prima di andare al guadagno.

Frate Gioacchino, nel ricordare quell’episodio, concludeva immancabilmente con un sorriso furbesco: «Io una buona parola gliela metto sempre».