Spogliarsi e ricostruirsi

L’esperienza Erasmus aiuta a riscoprire il meglio della nostra identità

di Pietro Gamberini
antropologo

Image 081Un pensiero agli Stati Uniti d’Europa

Se si parla di mondialità, di apertura e sdoganamento dei confini, la parola Erasmus è un concetto oggi ormai conosciuto dai più.

Si tratta, in breve, di una borsa di studio per svolgere un periodo variabile tra i tre e i dodici mesi presso un’università straniera, in accordo con quella di appartenenza, che permetta allo studente non solo di proseguire gli studi intrapresi in Italia, ma di ampliarne le prospettive. Negli anni ci siamo abituati al suono di questo termine, eppure non è raro che ancora ci si interroghi sull’opportunità o meno di scambi internazionali di questo tipo: se sia giusto, in tempi di crisi, non tanto mantenerli, quanto incentivarli. La risposta è senza alcun dubbio affermativa. Questo tipo di esperienza arricchisce la persona, il profilo accademico e professionale, le prospettive future. Inserisce, nella vita di chi sa accettare questa sfida, un tassello che permette di modificare per sempre le carte in gioco, di farti prendere strade che neanche valutavi e di proporzionare piccoli e grandi problemi quotidiani in un contesto molto più ampio.

Per capire l’entità del fenomeno, si tratta di oltre 300.000 erasmus italiani partiti negli ultimi 25 anni, svariati milioni se si considerano quelli da tutta Europa. Se aggiungiamo tutte le altre borse di studio esistenti, ben più congrue e danarose, di tirocinio, di ricerca e i programmi congiunti di Master e Dottorati tra università di paesi differenti, il numero di coloro che si qualificano all’estero diventa realmente impressionante, una vera e propria nazione di universitari poliglotti.

Le generazioni erasmus portano con sé la latente consapevolezza culturale di appartenere effettivamente a quell’entità che va delineandosi come “Stati Uniti d’Europa”, più che ad un solo Paese. Tuttavia, per quanto moltissimi studenti siano già fattivamente inseriti in trame di condivisione internazionale, forse la prima vera efficace prova per gli europeisti convinti, le modalità con cui viene affrontato questo primo passo verso la creazione di un unico grande Stato, rivela di per sé alcune stonature e perplessità. Il percorso che sta attuando l’Italia verso quella condivisione, non è così dissimile da quello individuale di uno studente che si reca all’estero per la prima volta. Le paure che contraddistinguono l’entrata negli Stati Uniti d’Europa del nostro Paese, ma al tempo stesso una propensione già avviata alla globalizzazione, ci portano a parlare dell’Italia con gli stessi termini di un universitario alle prese con il suo Erasmus.

Le questioni della cornice

Il primo cambiamento radicale è il venire scaraventato in una cornice senza appigli, un ambiente privo delle abitudini, delle sicurezze e degli affetti di casa. Eri consapevole che quel Paese stava lì, ma non avevi mai preso in considerazione l’idea di viverci. Una presa di coscienza di un contesto sconosciuto e nuovo, in cui ricostruirsi poco a poco una routine, un modo d’essere, unito ad uno spaesamento di tipo professionale, una struttura differente negli ambiti accademici e lavorativi, e - soprattutto se si tratta del Nord Europa - un rigore mai riscontrato prima; subentra poi la lontana sensazione di perdere le proprie radici, l’identità, la propria storia. Il contatto Skype con amici e parenti, la nostalgia nelle foto attaccate al muro, tendono in parte a lenire quello strappo dalla vita così come la si conosceva. Si arriva inevitabilmente a dover accettare che non è più possibile affidarsi ad una realtà precostituita e si impara a mediare tra il self e la nuova nicchia ecologica di cui si è venuti a far parte. Scatta perciò quella sorta di meccanismo delle autonomie: dovendo rendere conto all’Università che ti ha accolto, e alla solitudine che incombe, non è più possibile limitarsi al solo ricordo di ciò che hai lasciato a casa. Occorre ripartire da capo, imparare la lingua a dovere, iniziare a prendere confidenza con le nuove dinamiche sociali che si vengono via via creando, capire chi si è e con quali obiettivi.

Siamo coscienti di appartenere al contesto più ampio dell’Europa, ma non abbiamo mai preso in considerazione il senso pratico del farne parte, che presuppone ricostruirsi poco a poco una routine, un modo d’essere. Già lo sperimentammo con l’assunzione della moneta unica, con cui abbiam dovuto scendere a patti in poco tempo, terza età compresa. La differente struttura politica e sociale dei vari Stati dell’Unione, gli standard in cui è necessario rientrare e un rigore cui non siamo abituati, creano spaesamento; subentra anche in questo caso la lontana sensazione di perdere le proprie radici, la propria storia, l’identità. Identità che è comunque possibile riscontrare nel contesto locale e provinciale: un quotidiano senza strappi evidenti tende in parte a lenire i cambiamenti nelle politiche internazionali, pur dovendo, in quanto italiani, abbandonare quel senso innato di conservatorismo che ci contraddistingue.

Image 085Con la coscienza di sé

Chi parte per un erasmus-orgasmus, cui unico scopo è farsi una vacanza all’estero e si ritrova spesso a disperderne il senso, senza mettersi in gioco, non è così dissimile da un’Italia che non valorizza il proprio patrimonio artistico, che coltiva una paura immotivata per lo straniero, che diventa lo stereotipo di se stessa appena al di fuori dei propri confini. In un’ottica europeistica, non ci sarà spazio per una nazione che non abbia chiari questi due aspetti fondamentali: dove si trovi ora e dove sia diretta, aspetti che solo nella condivisione e nella sfida europea saranno chiariti. Come per gli erasmus alle prese con la nuova realtà, gli Stati Uniti d’Europa, se vissuti in maniera cosciente, diverrebbero non solo valorizzazione dei lati migliori di ogni Paese, ma anche riappropriazione delle rispettive autonomie, quel terreno fertile in cui depositare con orgoglio le proprie aspettative, senza la necessità di correre all’estero. L’ipocrisia di chi associa, tra gli studenti, l’espatriare a una fuga, uno scappare dalle proprie responsabilità, perderebbe di valore, perché è proprio spogliandosi di ogni autoreferenzialità che l’Italia sarà costretta a rendere conto di se stessa, a farsi realmente i conti in tasca.

Ma per affrontare tale alterità, a livello nazionale o personale che sia, occorre innanzitutto avere una coscienza di sé. Prima di creare fantomatici Stati Uniti d’Europa è perciò fondamentale partire dalle basi, garantire solidità ai propri mercati interni e ai rapporti umani che si instaurano tra le generazioni. Che non vi sia più un senso di tradimento avvertito dai figli nei confronti dei padri, per una situazione e un’attualità a dir poco desolanti. Con queste basi, le esperienze pregresse, pur traumatiche, di ricerca infinita di lavoro, di iperspecializzazione, di apertura al mondo e di generazione globale, potranno essere il terreno fertile su cui fondare un’unica potenza, la quale, più che economica, possa garantire, nel confronto, un abbandono/rifiuto degli errori del passato. Il proprio valore sarà così possibile coglierlo non solo all’estero, ma anche tra le braccia di questa grande nostra nazione.