Partire senza bagaglio

Incontro a realtà diverse per incarnare, lì e ora, la nostra capacità d’accoglienza

di Giusy Baioni
giornalista

Image 067C’è chi parte

«Se sei venuto in Africa per aiutare me e la mia gente, stai perdendo il tuo tempo. Ma se sei venuto in Africa per sentirti un uomo libero, come lo sono io, allora benvenuto!». Così diceva un anziano masai ad un amico, qualche anno fa. Me la sono memorizzata questa frase che riassume così bene ciò che penso e che ho imparato da quando ho cominciato a uscire dal guscio di questo nostro Paese.

Da quando viaggiare è diventato più facile e gli aerei hanno accorciato le distanze, sono in tanti a muoversi da un capo all’altro del globo, chi per lavoro, chi per studio, chi per vacanza. E ogni viaggiatore ha il suo stile, la sua filosofia, il suo modo di rapportarsi con chi incontra, le sue preferenze e le sue motivazioni che lo spingono ad andare.

C’è chi viaggia senza nemmeno incontrare le realtà locali, alloggia in resort, o in alberghi internazionali, cerca i menù all’italiana, segue la guida che parla italiano e cerca gli italiani che vivono all’estero per far conversazione e magari farsi raccontare com’è la vita in quel luogo. Ma non si mescola.

C’è chi viaggia alla ricerca di qualcosa di esotico, parte con un’insoddisfazione personale, una frustrazione, magari un fallimento che cerca di buttarsi alle spalle, e intraprende una fuga - dalla propria realtà e soprattutto da sé - o una ricerca esistenziale. Conta allora misurarsi con se stesso, più che incontrare realtà differenti: ed ecco il turismo d’avventura spesso estremo o quello più intimo in cerca di spiritualità diverse dalla nostra.

C’è poi, al contrario, chi parte con l’idea di aiutare. Cerca soprattutto l’incontro, il confronto con l’altro, ma spesso con un’idea di base distorta, con la presunzione di essere il giusto, il buono, il bravo, il moderno… il superiore che tende la mano allo sfortunato, al misero, al meschino, magari anche all’ignorante, al retrogrado, addirittura al primitivo. Ed è chiaro che dietro questo atteggiamento c’è tutto il retaggio dell’epoca coloniale e anche un’idea fondamentalmente razzista.

Non è facile viaggiare spogliandosi dei propri giudizi e pregiudizi. Ma solo così si può sperare in un incontro autentico, utile sia a chi parte che a chi ospita: partire senza bagaglio. Ovvero, lasciando a casa le proprie certezze, spogliandosi il più possibile delle proprie presunzioni e del proprio retroterra culturale. In tal modo, si può provare ad andare incontro a culture diverse senza giudicare. È chiaro che non si può (e non si deve!) fare tabula rasa di ciò che siamo. Si tratta piuttosto di una sospensione del giudizio che permetta di immergersi in una realtà diversa, di lasciarsi contaminare, di mettersi in atteggiamento di ascolto umile e di lasciarsi stupire, sorprendere, col desiderio di imparare. Allora e solo allora può nascere un dialogo fecondo, in cui anche il nostro patrimonio personale di conoscenze ed esperienze diventa un contributo proposto e non imposto all’altro.

Troppi danni sono stati fatti nei secoli con le migliori intenzioni, troppe culture sono state distrutte, troppe religioni sono state imposte, troppi aiuti sono stati portati senza chiedere se e come fossero graditi. Proprio per correggere queste tendenze, spesso sottili, è nato da qualche anno il turismo responsabile, che tenta di avvicinare le altre culture in punta di piedi, con rispetto e umiltà.

Turismo e voyeurismo

Ma lasciatemi ora fare un passo indietro. Ci sono tanti tipi di turismo, dicevamo. C’è la semplice vacanza, c’è il turismo d’arte e culturale, quello enogastronomico che va tanto di moda, quello esotico, quello spirituale… fino ai tipi più deteriori, come il turismo di guerra o quello sessuale. E vorrei spendere una parola su questi ultimi. L’Italia gode di un pessimo primato: i nostri uomini sono tra i più assidui frequentatori delle spiagge brasiliane o thailandesi, in una ricerca senza ritegno e senza vergogna di giovani, persino bambine e bambini da sfruttare. Un abisso di orrore. E non pensiamo che sia un fenomeno di nicchia. Che non ci riguardi. Bisogna agire a livello sociale, informare, condannare - socialmente prima ancora che penalmente - un comportamento inaccettabile, che si scherma dietro scuse intollerabili, come se comprare il corpo di un minore fosse “un aiuto ad uscire dall’indigenza”. Il peggio del peggio del più becero sfruttamento coloniale razzista e opportunista.

Così come becero è il turismo voyeuristico che si nutre delle tragedie altrui, che siano i pullman per Avetrana o quelli che ho incontrato ad esempio a Mostar, dove il celebre ponte ricostruito è colmo di bancarelle che vendono ai turisti souvenir di guerra, elmetti, proiettili e quant’altro. Con tanto di spille con simboli nazisti.

Image 077Conoscere ad occhi aperti

Infine, mi preme concludere con un’ultima considerazione, più vicina ai nostri lettori. E lo faccio con un racconto personale. Da anni sognavo di andare a visitare quella che chiamiamo “Terra Santa”. L’occasione mi è stata offerta in maniera diversa dai classici pellegrinaggi che portano i cristiani di mezzo mondo sulle orme di Gesù di Nazareth. Sono stata ospite dei volontari dell’Operazione Colomba, ramo dell’Associazione Papa Giovanni XXIII che si occupa di pace e interposizione nonviolenta. Fino ad allora, quanto accade in Israele e nei Territori Occupati palestinesi per me erano solo lontane notizie di cronaca, immagini sfocate e spesso contraddittorie. Da quel viaggio, tutto è cambiato. La visione del muro di separazione, orrendo mostro che deturpa luoghi cari a tutta l’umanità, la constatazione delle condizioni di vita insopportabili e delle vessazioni continue subite dalla popolazione civile palestinese, l’osservazione della militarizzazione soffocante (prima di tutto per i propri cittadini e la loro vita quotidiana) dello stato ebraico, l’ammirazione per i pochi coraggiosissimi israeliani che vanno controcorrente con un’opera di servizio alla verità… tutto questo mi ha profondamente cambiata. I vicoli della Gerusalemme storica sono pugni nello stomaco ad ogni angolo. E così la visione di Betlemme, sfregiata e strappata al resto del mondo. Eppure… eppure orde di pellegrini si aggirano come nulla fosse, si raccolgono, pregano, camminano, pare senza accorgersi di nulla. Seguono le orme di duemila anni fa ma sembrano incapaci di vedere le ferite del Cristo che oggi, oggi viene tradito e condannato ogni giorno in quella terra martoriata. Ecco: un esempio estremo, se volete, ma per provare a riflettere sul senso di un turismo religioso che muove ogni anno masse di persone (e una marea di soldi), ma che spesso serve solo a consolare animi incerti che si cullano in uno spiritualismo del tutto avulso dalla realtà. E scordano che la fede, se non è concreta, semplicemente non è. Che Dio è qui e ora. Che Gesù ci viene incontro con le sembianze del fratello o della sorella immiseriti, magari anche insistenti e scomodi, che incontriamo e ostentatamente ignoriamo nei nostri viaggi in paesi impoveriti (da noi!), ma anche fuori dalle nostre chiese calde e perbeniste.