La fragilità dell’apolide

Una nuova legge sulla cittadinanza per rafforzare la coesione sociale

di Igiaba Scego
scrittrice di origine somala

Image 055Blu come la bandiera

Il lasciapassare era blu come la bandiera somala. «È il tuo primo documento, cara» mi disse mia madre accarezzandomi la testa. Io e lei ci preparavano al grande viaggio. Era il 1983 e mia madre non tornava in Somalia dal 1970 quando aveva seguito mio padre nell’esilio.

La Somalia per me era una terra mitica, lontana e che conoscevo solo attraverso i racconti dei miei genitori. Sapevo che da quella terra meravigliosa erano dovuti scappare perché un uomo cattivo non li voleva più in giro. Ero solo una bambina. Parole come golpe, tirannia, dittatura mi erano completamente sconosciute. Sapevo che l’uomo cattivo si chiamava Siad Barre, ma della sua biografia sapevo ben poco. Mi sfuggivano tutti i dettagli. «Papà non viene con noi?», le chiesi. «Ancora non può», mi disse. Allora non immaginavo che mio padre era interdetto dal tornare in Somalia. Se lo avesse fatto sarebbe finito dritto filato in una cella di isolamento.

Ricordo che accarezzai quel lasciapassare blu e lo trovai molto bello. Mia madre non era dello stesso avviso. Era preoccupata. Quel blu la preoccupava molto. Sapeva che quel viaggio che stavamo per fare insieme verso la terra d’origine era a nostro rischio e pericolo. Non avevamo ancora la cittadinanza italiana e partire era un po’ un azzardo. Ma era tanta la voglia di vedere quella patria lontana che mia mamma corse lo stesso il rischio.

Era un’Europa diversa per fortuna quella in cui sono cresciuta io. Un’Europa meno sorda e dove il viaggio non era quella fatica che è diventato oggi per i migranti. Però mia madre sapeva che eravamo molto fragili. Sapeva che quei documenti in nostro possesso potevano tradirci da un momento all’altro. Per questo uno dei primi passi che fece la mia famiglia in Italia fu quello di richiedere la cittadinanza. Sapevano che quel documento avrebbe dato a loro e soprattutto a me la possibilità di decidere di testa nostra. E devo dire che così è stato.

Avere la cittadinanza italiana mi ha permesso davvero tante cose. Mi ha permesso di viaggiare, seguire i miei sogni, sentirmi protetta e consapevole dei miei diritti. Mi ha permesso di vivere anche l’identità somala in piena libertà. Mi sentivo e mi sento ancora 100% italiana e 100% somala. Un 200% che può attraversare mondi e sogni.

Image 060Eravamo profughi

Eravamo profughi, senza più una madrepatria, in balìa del vento della politica mondiale, e ottenere la cittadinanza per la mia famiglia ha significato avere finalmente qualcosa a cui aggrapparsi. Poi la Somalia è stata travolta dallo tsunami della guerra civile e il documento somalo è diventato per il mondo qualcosa di inutile, quasi peggio della carta igienica.

Io da piccola sognavo di avere entrambi i documenti, quello somalo e quello italiano. Però a un certo punto ho rischiato di non averne nessuno. Se mio padre non avesse avuto la cittadinanza italiana prima dei miei 18 anni, io sarei oggi una sorta di paria: senza la cittadinanza somala, ma senza nemmeno quella italiana. Fino a pochi mesi fa era difficile dimostrare la mia effettiva appartenenza alla Somalia. Le strutture consolari erano tutte non ufficiali. Le ambasciate somale, pur essendoci fisicamente, non avevano più legittimità diplomatica. Per 22 anni la Somalia è stato un failed State, un Paese senza istituzioni: senza governo, senza parlamento, senza futuro, senza speranza. Ora ci sono i primi timidi passi verso la pace, però la strada è ancora lunga. E nemmeno in Italia va troppo bene: il Paese è ancora nel dubbio se accettare l’alterità dei migranti e soprattutto di noi figli di migranti. Come figlia di migranti nata in Italia avrei potuto chiedere la cittadinanza solo al compimento del diciottesimo anno di età. Ma la legge italiana oltre a non dare automaticamente la cittadinanza, la lega a tutta una serie di impegni burocratici. Primo fra tutti dimostrare di avere avuto una residenza continuativa in Italia.

Ma avrei avuto la possibilità reale di dimostrare questa mia residenza continuativa? Temo di no. Temo che, se mio padre non avesse preso la cittadinanza prima del compimento del mio diciottesimo anno di età, ora vi racconterei un’altra storia, sicuramente più triste. Ho avuto fortuna. E ogni volta penso: questa legge deve cambiare perché la vita non si può appoggiare sulla fortuna. La vita si deve appoggiare sul diritto. Abbiamo bisogno di equità e di pari opportunità. Purtroppo però questa benedetta legge sulla cittadinanza non trova sbocco in Italia.

Se ne parla da anni, intanto i bambini aumentano, i giovani crescono e tante persone si trasformano in stranieri nella loro nazione o, come dico spesso, italiani senza il permesso di soggiorno. Vivi in un limbo e non sai come uscirne.

«Né carne né pesce, probabilmente uovo». In questa frase è condensato il dilemma delle seconde generazioni in Italia. L’autrice, l’italo-etiope Lucia Ghebreghiorges, ex collaboratrice di Left e membro attivo della rete G2, ha creato in pochi tratti il manifesto di una generazione (disponibile al sito www.secondegenerazioni.it). La rete G2 - Seconde Generazioni, di cui la Ghebreghiorges fa parte, è nata nel 2005 grazie all’unione spontanea di alcuni figli e figlie di immigrati/rifugiati, nati in Italia o arrivati da minorenni. Si tratta di cittadini, originari di Africa, Asia, Europa e America Latina, che hanno pensato di unire le forze per lavorare su due punti fondamentali: i diritti negati alle seconde generazioni senza cittadinanza italiana e la costruzione di un’identità plurima, meticcia, favorevole a un incontro di civiltà. La rete è nata a Roma, ma dalla capitale il dialogo è in costante movimento verso altre realtà italiane cittadine e non. Da Milano a Palermo il network è in continua espansione. Nel 2006, per rendere la comunicazione tra i membri più dinamica, si è pensato a una serie di iniziative che hanno portato alla costruzione di un blog al cui interno i membri potevano iscriversi ad un forum di discussione. Oltre a questo, nello stesso anno, sono stati realizzati due video e un fotoromanzo: strumenti collettivi che servivano per sensibilizzare la società italiana sulle problematiche che vivono quotidianamente le seconde generazioni. La rete G2 ha partecipato, tra il 2006 e il 2007, anche a molti incontri istituzionali.

La voglia di questi ragazzi di parlare, unirsi, combattere per un ideale comune è senza ombra di dubbio un segnale positivo. Ma allo stesso tempo si potrebbe affermare paradossalmente che il successo di una rete come G2 è anche frutto di un insuccesso e di una serie di preoccupazioni.

LImage 064a forza di Roma

Mi chiedo: come mai l’Italia non prende esempio dall’antica Roma? Nella sua famosa orazione del 48 d.C. l’imperatore Claudio non a caso dice che il futuro dell’impero si giocherà proprio nella capacità di Roma di integrare le aristocrazie delle province. Non a caso ricorda che fin dalle origini Roma si era aperta agli stranieri: Numa era un sabino, Tarquinio Prisco un etrusco di padre greco. «C’è forse da pentirsi che siano venuti i Balbi dalla Spagna e uomini non meno insigni dalla Gallia narbonense?», chiede Claudio al suo uditorio. «Ci sono qui i loro discendenti, che non ci sono secondi nell’amore verso questa nostra patria. Cos’altro costituì la rovina di Spartani e Ateniesi, per quanto forti sul piano militare, se non il fatto che respingevano i vinti come stranieri?».

Saranno molti i senatori e addirittura gli imperatori venuti da quell’Altrove che Roma aveva fatto suo. Traiano e Adriano venivano dalla Spagna, Settimio Severo e Caracalla dall’Africa. Roma era una città multietnica e anche chi era privato di ogni diritto civile, come gli schiavi, poteva essere sciolto dai vincoli di schiavitù ed accedere in qualità di liberto a un benessere economico e ad alte cariche dello Stato.

Certo Roma non era un sistema perfetto. C’erano repressioni e persecuzioni. Basti pensare alla repressione dei Baccanali nel 186 a.C. ad opera del Senato. L’ira della classe dirigente si era abbattuta su questi riti dove le donne avevano un ruolo preminente e dove le classi sociali erano mescolate. Quello che il senato non vedeva di buon occhio era l’indebolimento del ruolo del pater familias. Ma Roma, nonostante le resistenze, seppe creare un sistema dove essere cittadini era veramente alla portata di tutti. Ed è questo che nei secoli riuscì a darle forza. Non è un caso che la Constitutio Antoniniana del 212 d.C., che concedeva la cittadinanza a tutte le popolazioni che risiedevano entro i confini dell’impero (questo editto che sant’Agostino definì umanissimo), fu emanata da Caracalla, uno degli imperatori più dispotici della storia romana. Caracalla, nella sua follia, seppe però curare gli interessi dell’impero. Ed era interesse di Roma concedere la cittadinanza, perché questo la rendeva veramente padrona del mondo.

E la cittadinanza è ancora l’interesse di Roma. I discendenti degli antichi romani, gli italiani, dovrebbero concedere la cittadinanza perché questo permetterebbe la costruzione di una società coesa in grado di uscire integra dalla crisi economica che ha colpito così duramente l’eurozona. È necessaria una legge che permetta di avere una patria fatta di tutte le patrie del mondo e che possa camminare insieme verso un futuro di speranza.