Un Dio che non fa privilegi

«I cittadini di Ninive credettero a Dio… ma Giona ne provò grande dispiacere» (Gn 3,5.4,1)

di Giuseppe De Carlo
della Redazione di MC

Image 019Pinocchio e la risurrezione

Del libro di Giona i cristiani ricordano solitamente nient’altro che l’episodio della sua permanenza nel ventre del pesce, così che il suo accostamento a Pinocchio è spontaneo. Gesù stesso cita la vicenda di Giona per lo stesso episodio, ma collegandolo nientemeno che all’evento determinante della redenzione, la sua risurrezione: «Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona il profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra» (Mt 12,39-40). Ma poi Gesù aggiunge il riferimento a ciò che ben pochi cristiani conoscono del libro di Giona: «Nel giorno del giudizio, quelli di Ninive si alzeranno contro questa generazione e la condanneranno, perché essi alla predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Giona!» (Mt 12,41).

In un modo o nell’altro comunque tutto serve per accostare questo libro biblico. L’accostamento a Pinocchio è opportuno perché non ci troviamo di fronte ad un libro che narra una storia accaduta, ma abbiamo a che fare con una narrazione fittizia con un intento didattico. E l’insegnamento che vuole trasmettere è di capitale importanza nella rivelazione ebraico-cristiana: «Tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore e che ti ravvedi riguardo al male minacciato» (Gn 4,2).

Il libro di Giona è stato composto negli anni successivi all’esilio babilonese (586-538 a.C.), che per il popolo di Israele rappresentò la maggiore tragedia della sua storia, non solo socio-politica, ma soprattutto religiosa. I fondamenti su cui aveva fondato la sicurezza della propria fede - la monarchia, la terra, il tempio - erano venuti meno. Era reale il rischio della dispersione e della perdita totale della fiducia nel Dio che aveva liberato dalla schiavitù dell’Egitto e aveva donato la terra, vincendo tutti i popoli che ostacolavano la libertà e la sussistenza di Israele. I profeti Ezechiele e il Deuteroisaia con forza si impegnarono a far capire che l’esilio non era affatto la sconfitta del Dio di Israele, ma era l’estrema drammatica iniziativa di riportare a sé il suo popolo, per farlo passare da una falsa e ipocrita religiosità ad una più genuina e reale. L’azione salvifica di Dio passava necessariamente attraverso la tragedia dell’esilio. E difatti, mentre il popolo è in esilio, Dio mette in atto azioni nuove e potenti per riportare in patria il suo popolo per l’inizio di una storia nuova di alleanza.

Appoggiare la fede sulla coscienza

Già in esilio, ma ancor più una volta ritornati in patria, i profeti insistono sull’esigenza di poggiare la fede non su fondamenti tangibili, come la terra, la monarchia e il tempio, ma su una base più solida. Anzitutto sulla coscienza di essere il popolo dell’alleanza fondata sull’osservanza della Torah, sul culto gradito a Dio perché unito all’impegno per la giustizia e il diritto nei rapporti sociali.

Ma la ricerca di un nuovo rapporto con Dio sarà vissuto inevitabilmente in maniera differente dalle diverse anime che costituiscono l’Israele tornato dall’esilio. L’ala emergente insiste molto sulla purità della razza, perciò i problemi che nasceranno saranno soprattutto quelli della convivenza con gli stranieri. Le riforme di Esdra e Neemia saranno mosse da una forte valenza xenofoba, specialmente attraverso la pratica della circoncisione, le leggi sui matrimoni misti e la compilazione delle genealogie, per escludere l’impurità rituale dal seno del popolo ricostituito. Le mura rialzate intorno alla città si abbinarono così alle mura e ai baluardi isolazionistici dello spirito.

Ci furono, tuttavia, anche voci dissidenti, che si espressero in particolare nei libri di Rut e di Giona, aperti alla convivenza e alla stima dei popoli vicini e perfino nemici.

L’autore del libro di Giona giungerà al punto di presentare l’inimmaginabile: un profeta israelitico disobbediente e renitente che sino alla fine contesta l’agire universalistico di Dio. Di più, il libro giungerà a presentare una delle capitali dell’impero che avevano deportato gli Israeliti come città docile, pronta in massa all’invito a penitenza, come Israele non era mai stato capace di essere.

Delle due capitali deportatrici, l’autore mette in scena Ninive e non Babilonia, probabilmente perché, ancora troppo vicina nel tempo, la presentazione positiva di Babilonia avrebbe portato a uno scontro senza pari con chi era ancora pieno di rancore nei suoi confronti. E tuttavia anche Ninive, città nemica e odiata, diventa per l’autore di Giona esempio di obbedienza Dio e ai suoi profeti: «I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli» (Gn 3,5). Non solo la gente, ma soprattutto il re, e in questo c’è senz’altro un accenno critico ai re d’Israele che avevano corrotto e sviato il popolo, invece di guidarlo con le leggi e con l’esempio: «Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere» (Gn 3,6). E viene aggiunto: «Per ordine del re e dei suoi grandi fu poi proclamato a Ninive questo decreto: “Uomini e animali, armenti e greggi non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua. Uomini e animali si coprano di sacco, e Dio sia invocato con tutte le forze; ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani. Chi sa che Dio non cambi, si ravveda, deponga il suo ardente sdegno e noi non abbiamo più a perire!”» (Gn 3,7-9).

Image 029Lo scandalo dell’israelita

È interessante osservare che non si dice che si siano convertiti al Dio di Israele: essi non cambiano religione, ma si convertono dalla condotta malvagia e dalla violenza che è nelle loro mani (cf. Gn 3,8). Ma ecco che accade l’imprevedibile: «Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece» (Gn 3,10).

Questo è troppo per Giona, che impersona l’israelita impegnato a preservare scrupolosamente la purità della sua razza e a fomentare la fede nel Dio che ha fatto alleanza con Israele scegliendolo e separandolo da tutte le nazioni impure: «Signore, non era forse questo che dicevo quand’ero nel mio paese? Per questo motivo mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore e che ti ravvedi riguardo al male minacciato. Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!» (Gn 42-3).

Il libretto di Giona è perciò una lucida e coraggiosa denuncia di una religiosità che pretenda di usare Dio per i propri gretti sentimenti di pretesa superiorità e di odio verso i diversi, gli stranieri, i lontani.