Ripensare al futuro

40 anni EMI: intervista a Giovanni Munari, ex direttore

a cura di Raffaello Zordan 

Image 176«L’EMI è insieme un osservatorio e un laboratorio. Consente di cogliere le trasformazioni della realtà sociale ed ecclesiale, e ha gli strumenti per elaborare riflessioni e proposte». È il giudizio lusinghiero del comboniano Giovanni Munari - 62 anni, per una trentina missionario in Brasile - sull’Editrice Missionaria Italiana, che ha diretto dal 2008 al 2012.

Il fatto è che questo osservatorio-laboratorio, in grado di «aiutare gli istituti missionari a capire lo stato della missione, come viene vista, vissuta, percepita», rileva anche le contraddizioni interne al mondo missionario.

E padre Munari mette subito a fuoco quella che ritiene essere la questione centrale della missione e della Chiesa italiana oggi: «È il concilio Vaticano II, che ha rappresentato una svolta, una rivoluzione copernicana, e che non è stato ancora sufficientemente capito e assimilato. Prima la missione parlava al mondo, insegnava, aveva una verità da proporre anche a livello sociale. Con il Vaticano II è cambiata la prospettiva: la Chiesa non è più al centro, sono le varie realtà che compongono il mondo ad essere al centro. E con questo mondo bisogna interagire, entrare in dialogo».

Soffermiamoci sullo stallo del Vaticano II. Quali le ricadute sulla missione?

Se si prendono le riflessioni che, in occasione del Vaticano II, la Chiesa fa su se stessa e sul mondo, c’è un approccio fortemente critico e innovativo. Se invece si prendono le riflessioni sulla missione, risultano piuttosto smussate, poco incisive e con lo sguardo al panorama preconciliare. Intendo dire che il documento del Vaticano II sulla missione non è in sintonia con le costituzioni sulla Chiesa e il suo dialogo con il mondo.

Col Vaticano II sono state poste le basi per una rivoluzione copernicana. Ma per cogliere in pieno questi grandi principi di cambiamento ci vuole dedizione e tempo. Ora in campo missionario questo non è ancora accaduto. E si continua a cercare ispirazione e risposte più nelle sane tradizioni che nelle nuove prospettive.

Questi sono i nodi centrali per chi fa missione oggi. Una missione bloccata, che non fa più presa sui giovani e che non sa andare molto oltre alla tradizionale plantatio ecclesiae.

Quindi la missione dell’EMI dovrebbe essere quella di contribuire a un recupero dello spirito del Vaticano II?

Questo è esattamente il grande nodo che l’EMI ha cercato di affrontare perché è il nodo da sciogliere. O partendo da questa nuova lettura che ci è venuta dal Concilio si cambia impostazione, il che significa cambiare tutto, oppure continueremo a porci e ad affrontare i problemi con un taglio che appartiene all’epoca preconciliare. Questo vale anche per i comboniani: le contraddizioni che l’istituto oggi vive risalgono a quel nodo.

Ora, considerato che nel mercato editoriale italiano l’EMI è una voce unica, perché non dovrebbe occuparsi del Concilio dimenticato? Chi, se non i missionari, sono chiamati a esprimersi su questo? Certo lo fanno alcuni teologi, che però lavorano più con il versante laico che con quello cattolico.

È muovendo da questo approccio che nel mio periodo all’EMI ho cercato di far funzionare, non senza difficoltà, il laboratorio editoriale, scovando nuovi autori e stimolando quelli vicini a questo tipo di sensibilità.

Si stanno facendo gli investimenti adeguati affinché questo osservatorio-laboratorio funzioni?

L’EMI, quanto a numero di pubblicazioni, va considerata una casa editrice di media grandezza. Ma per continuare ad essere quell’osservatorio-laboratorio di cui dicevo deve probabilmente diventare una piccola casa editrice. Intendo dire una casa editrice qualificata, meno preoccupata di produrre 60-70 titoli l’anno: ne bastano una decina di alta qualità.

Rimango convinto che oggi bisogna lavorare per offrire una riflessione di alto profilo sulle tematiche della missione, individuando nella Chiesa e nella società autori in grado di illuminare un tratto di un cammino che ci deve far uscire da una prospettiva preconciliare.

Non è il fatto di andare nella Repubblica Democratica del Congo piuttosto che in Brasile o in Cina, che ti rende missionario. Tu puoi andare dove vuoi e riprodurre lo schema preconciliare che c’è qui. È una questione di impostazione del lavoro, di visione del mondo, di comprensione di sé stessi in questo mondo articolato e complesso.

Image 180Qualche piccolo nodo ha cominciato ad essere sciolto?

Nel periodo in cui sono stato direttore ci abbiamo provato, nonostante la crisi economica che ha colpito il nostro paese e ha complicato il quadro: non ci ha fatto capire se gli esiti delle misure che stavamo prendendo, positivi o negativi che fossero, dipendevano da noi o era la crisi a governarli.

Esempio. Abbiamo progettato e prodotto in un campo interessante e delicato come quello dell’intercultura. Il fatto è che da qualche anno a questa parte chi si occupa di intercultura nella scuola ha altre priorità: perché in quanto insegnante precario fa il doppio lavoro, perché non ha stimoli per approfondire, perché… Quindi tu editore non riesci a capire se è la tua proposta a non essere adeguata o se è sbagliato il momento oppure se a pesare è la difficile condizione dei soggetti a cui proponi. Credo che anche il mondo dell’associazionismo che si occupa di intercultura viva queste difficoltà.

In questo contesto, non è pensabile di costruire una relazione più forte tra EMI e riviste missionarie?

Oggi le riviste missionarie riflettono la crisi degli istituti. Quindi sono più espressione di un mondo che è in stallo che una risorsa da utilizzare. Bisognerebbe che questi discorsi venissero fatti a livello generale e che gli istituti capissero l’urgenza di dare un colpo di reni. Di qui potrebbe venire un rinnovamento delle riviste.

Se dovesse delineare una prospettiva per l’EMI?

Mentre sono centinaia le case editrici e le librerie che chiudono, l’EMI tira avanti senza bisogno di aiuti esterni. Ciò significa che il prodotto c’è, che la qualità c’è, che un mercato, seppur di nicchia, c’è. Significa che nella Chiesa e nella società italiana ci sono persone alla ricerca di nuove prospettive.

Quando sono uscito dall’EMI ho detto a chi subentrava: la casa editrice ha creato una propria storia, un proprio percorso e una propria sensibilità. Il futuro dell’EMI è restare EMI. Cioè, se riesce a percorrere questa linea di frontiera all’interno della Chiesa - linea fatta di dialogo coraggioso con il mondo, di proposte alternative anche a livello teologico (abbiamo cominciato a farlo sulla bibbia e sulla vita religiosa), di nuove pratiche ecclesiali, di esperienze missionarie innovative, di approfondimenti su temi quali lo sviluppo, l’ambiente, i conflitti, il disarmo - ha senz’altro un futuro.

E gli istituti missionari sono consapevoli di ciò?

Gli istituti stanno gestendo le loro crisi interne, si occupano di missionari anziani e malati, di strutture per accoglierli; si stanno leccando le ferite e, come la Chiesa in generale, non stanno pensando al futuro.