La saggezza dell’onestà

L’esperienza dello psicoterapeuta insegna umiltà per i propri errori

di Giovanni Salonia
frate cappuccino, psicoterapeuta

Image 074Bene perché bene

Essere onesto per uno psicoterapeuta non è solo un’istanza etica ma, per molti aspetti, un requisito professionale. Il prendersi cura delle persone richiede, proprio nella sua stessa definizione, integrità ed onestà. In quanto rapporto fondato sulla fiducia (affidare il proprio malessere dell’anima ad un altro), l’onesta è una qualità che costituisce la professionalità e, quindi, determina l’efficacia della cura. Ricordo le fatiche di un mio allievo che si preparava a diventare psicoterapeuta il quale, provenendo da un ambiente di commercianti, non riusciva a far propria la mentalità dell’essere terapeuta (due visioni del mondo e del lavoro che percepiva inconciliabili).

È chiaro che parlare dell’onestà dello psicoterapeuta non può ridursi all’osservanza dei quarantadue articoli del Codice Deontologico (una condizione questa necessaria ma non certo sufficiente). Il Codice Deontologico non può essere percepito come un Super-Io che pone dei limiti o delle regole. A volte, in modo provocatorio, chiedo ai futuri psicoterapeuti: perché è proibito avere rapporti sessuali con i pazienti? Insoddisfacenti - e addirittura preoccupanti - le risposte nelle quali il divieto viene motivato con il Codice Deontologico. Comportarsi con onestà solo per rispettare delle regole percepite come esterne manifesta un’immaturità morale e relazionale. E poi, si sa che le regole che non si sentono proprie nell’intimo sono le prime ad essere trasgredite.

Ritorna l’antica saggezza medievale: bonum quia bonum aut bonum quia iussum? [bene perché bene o bene perché comandato?]. È necessario un cammino di ascolto del proprio cuore per ritrovare in esso quell’anelito al bene che anche le regole esterne richiedono. Per un terapeuta questo significa avere scoperto/acquisito che la vera istanza regolativa non proviene da un Super-Io, da freni inibitori o da codici, ma dall’essere dentro una relazione e dal viverne con pienezza le regole che la definiscono. Non si tratta di apprendere regole, ma di maturare una forma vitae, direbbe Giorgio Agamben, che ha studiato con acume la grande differenza nel francescanesimo tra regula e forma vitae. Il poeta non è prigioniero delle regole semantiche e grammaticali, ma se vuole comunicare non può abolire la grammatica: deve re-inventarla e ridisegnarla. Si tratta - come usa dire la Gestalt Therapy - di creare un “adattamento creativo” che è al di là della creatività autoreferenziale (che nega l’altro) e dell’adattamento passivo (che zittisce la propria soggettività).

Image 086Il triangolo virtuoso

Accenniamo adesso a qualche contenuto proprio dell’onestà dello psicoterapeuta.

Si è onesti come psicoterapeuti se si accetta che la relazione terapeutica è una relazione triadica e non diadica. Il Codice Deontologico ha, infatti, come primo significato, quello di ricordare al terapeuta che si sta prendendo cura del paziente in nome della comunità. La presenza simbolica ma determinante del “terzo” nel setting terapeutico è garanzia di efficacia e di validità. Il “terzo” in terapia si declina in molte forme: la comunità civile, il modello terapeutico e la scuola di appartenenza, la supervisione, il coterapeuta. D’altronde anche nella crescita ogni diade genitore-figlio trova la sua validità ed efficacia nel triangolo cogenitoriale: si è “genitore-di-un-figlio” se si è “genitore-con-il-cogenitore”. Pensarsi l’unico salvatore o l’unico terapeuta per un paziente non è onesto e non aiuta il percorso di guarigione o di maturazione del paziente.

Occorre accettare che il paziente resti unicamente paziente e non si instaurino con lui altri tipi di rapporti durante la terapia. Dico scherzosamente ai miei allievi-terapeuti: se il miglior medico della tua città viene in terapia da te (o manda la figlia)… avete perso la possibilità di farvi curare da lui! Si è terapeuti per prendersi cura del paziente e non per servirsi del paziente. Onestà significa, quindi, ad esempio, non cercare dal paziente informazioni che ci potrebbero tornare utili a livello personale e non in quanto suoi terapeuti. In altre parole, non “usare” per sé la relazione terapeutica che si è creata.

Il paziente ha sempre ragione (al limite, la sua!). Gianni si siede ed inizia la seduta dicendomi: «Ho l’impressione che tu sia arrabbiato con me». Sinceramente sorpreso, gli rispondo: «Non mi pare, ma voglio ascoltarmi». E dopo qualche attimo: «Non trovo in me sentimenti negativi nei tuoi confronti, ma se lo dici avrai le tue ragioni. Prova a individuare quando e come hai pensato questo». E lui: «Quando mi hai aperto la porta ho visto nel tuo sguardo rabbia nei miei confronti». «Dammi un attimo - replico - per ascoltarmi». Al che mi resi conto di cosa stava accadendo: a modo suo aveva ragione, perché quando avevo sentito il campanello squillare ero intento a leggere la lettera di un collega con il quale avevo un contenzioso molto sgradevole ed ero abbastanza irritato. Andando velocemente ad aprire, negli occhi doveva essermi rimasta l’espressione di rabbia. Condivisi questo con Gianni, che esclamò con un bel sospiro: «Meno male! Non sono matto». Quante volte nella sua vita le sue percezioni erano state squalificate o snobbate!

L’umiltà come garante

È l’umiltà che garantisce l’onestà del terapeuta e la cura del paziente. Quando un mio paziente andò su tutte le furie perché avevo dimenticato di spegnere il cellulare, la voglia di chiedergli chi gli ricordavo fu rimossa, per fortuna, e gli dissi: «Scusami, ho sbagliato. Hai ragione ad irritarti: avrei dovuto spegnere il cellulare». Solo dopo parlammo della sua reazione eccessiva perché nella sua esperienza non gli era stato facilmente riconosciuto il potere di rivendicare i propri diritti. Una paziente di 28 anni, circa cinque minuti alla fine, sta raccontando come durante una festa in casa si era sentita poco valorizzata dal padre, che aveva prestato più attenzione al fratello. Il terapeuta, volendo dare alla paziente un suo commento su questo, guarda l’orologio per vedere se ne ha il tempo. La paziente, accortasene, va su tutte le furie e comincia ad accusare il terapeuta di disinteresse, di ascoltarla solo per motivi venali, di essere poco interessato a lei. Il terapeuta, da parte sua, sostiene di aver guardato l’orologio solo per accertarsi che il tempo rimasto fosse sufficiente ad offrirle un commento terapeutico. Il conflitto è aspro. Lo stesso terapeuta ebbe poi modo di raccontare pubblicamente questo frammento di terapia presentandolo (purtroppo!) come modello di intervento nei confronti di un paziente “simil-delirante”! Come sarebbe stato diverso se avesse onestamente detto alla paziente: «Mi sa che lei ha ragione: mi stava raccontando di una sua sofferenza e io mi sono concentrato invece su me e sulla risposta che avrei potuto darle… ho agito come faceva suo padre»! Quanto sarebbe stato utile e corretto un semplice riconoscimento di un proprio errore!

Mi ritornano spesso in mente le parole di un mio formatore e terapeuta, Isadore From, che usava sempre ripeterci: «State attenti a non confondere e a non creare confusione nei pazienti». Allora mi sembrava la raccomandazione “devota” di un anziano, oggi so che è la saggezza dell’onestà. E non è certo valida solo per la terapia!

Dell’Autore segnaliamo:

La grazia dell’audacia. Per una lettura gestaltica dell’Antigone

Il pozzo di Giacobbe, Ragusa 2012, pp. 160