Il privilegio della gratuità

Preceduta da molti inganni, l’onestà nella Bibbia è una scoperta tardiva

di Giuseppe De Carlo
della Redazione di MC

Image 017La famiglia dei sotterfugi

«È inutile servire Dio: che vantaggio abbiamo ricevuto dall’aver osservato i suoi comandamenti?» (Ml 3,14). È l’amara constatazione di alcuni che il profeta Malachia presenta in un serrato dialogo con Dio. A sostegno del proprio ragionamento essi portano i dati dell’esperienza quotidiana. In effetti, è difficile dare loro torto, non solo guardando come vanno le cose nella nostra quotidianità, ma addirittura leggendo la Bibbia.

Nelle narrazioni bibliche che hanno come protagonisti i patriarchi c’è un furbetto: si tratta di Giacobbe. Giacobbe è il furbo, l’astuto, l’opportunista, il disonesto. E tuttavia, poiché padre dei dodici eponimi delle dodici tribù d’Israele, i testi biblici lo fanno il protetto di Dio. Viene dunque da chiedersi se Dio possa mai proteggere i disonesti e se la Scrittura lo possa mai elogiare.

Giacobbe fu disonesto quando approfittò della fame da lupo del fratello maggiore, Esaù, per derubargli la primogenitura. E lo fece con poca spesa: con un piatto di legumi rossi che poi sono entrati nel linguaggio universale come il famoso “piatto di lenticchie”: «lasciami mangiare un po’ di questa minestra rossa, perché sono sfinito» (Gen 25,30).

Ma Giacobbe non si accontentò di ingannare il fratello perché, sempre a spese di lui, ingannò anche il padre con uno scambio di persona nel quale fu complice anche la madre: una famiglia, quella di Giacobbe, tutta coinvolta nei disgustosi giochi dell’inganno, o come parte attiva o come controparte passiva. La madre lo rivestì di pelli animali perché il padre di lui, ormai totalmente cieco, palpandolo, potesse identificare in lui il fratello, caratterizzato dalla pelosità, al quale doveva concedere la benedizione paterna e, quindi, l’eredità spirituale, morale, la fertilità del suolo e dei greggi e il predominio politico nel clan. Ebbe un bel dire il padre Isacco che la pelle era la pelle di Esaù, ma che la voce era la voce di Giacobbe. Ebbe un bel dire poi quando gli chiese: «Tu sei proprio il mio figlio Esaù?», perché il furbo e il bugiardo replicò prontamente: «Lo sono». E fu così che il padre ingannato lasciò partire da sé la forza magnetica della benedizione che poi sarebbe stato impossibile fare tornare indietro, e disse: «… Dio ti conceda la rugiada dal cielo, terre grasse, frumento e mosto in abbondanza» trasmettendo al falso primogenito la fertilità della terra. E continuò dicendo: «Popoli ti servano e genti si prostrino davanti a te. Sii il signore dei tuoi fratelli e si prostrino a te i figli di tua madre…» (Gen 27,1-29).

Image 023Non finisce qui

Ma la storia di Giacobbe non finisce così, perché la vita (o la Provvidenza?) lo sottopose alla legge del contrappasso. L’arameo Làbano, fratello di Rebecca, madre sua e di Esaù, presso il quale Giacobbe si era recato per trovar moglie fra la sua gente, era anche lui un furbo e lo ripagò alla grande. Giacobbe si era infatti innamorato di Rachele, figlia di Làbano: per averla come sposa promise a Làbano sette anni di lavoro e, come promesso, lavorò sette anni che «gli sembrarono pochi giorni, tanto era il suo amore per lei». Ma la figlia che Làbano gli fece entrare nella notte delle nozze non fu Rachele, bensì Lia, la sorella maggiore, che, per avere «gli occhi smorti», non piaceva a Giacobbe. Alla luce del mattino seguente Giacobbe scoprì la sostituzione di persona e aggredì il suocero gridandogli: «Perché mi hai ingannato?». La risposta fu: «Dalle nostre parti non si dà in sposa la figlia più piccola, prima della primogenita». Giacobbe ebbe due mogli invece che una, ma dovette lavorare altri sette anni per avere quella che amava. Aveva lui sostituito se stesso al suo fratello, complici le pelli di capretto, ora gli fu sostituita Rachele con Lia, complice il buio della notte. Aveva lui sfruttato la fame del fratello dandogli le lenticchie, ora fu il suo amore a essere sfruttato e si fece non sette anni di lavoro, ma quattordici. Da furbo imbroglione, così, Giacobbe diventò l’imbrogliato, e da disonesto diventò vittima di disonestà.

Ma la vita (o la Provvidenza?) lo aspettò un’altra volta al varco o, meglio, al guado. Al guado del torrente Yabbok la notte gli fu fatale una seconda volta. Lottò tutta la notte: con un angelo? Con Dio? Il racconto biblico è sfuggente e non permette neanche di capire chi vinse e chi fu vinto. Comunque Giacobbe fu colpito all’anca e il racconto va verso la conclusione dicendo: «Spuntava il sole quando Giacobbe passò [il torrente], e zoppicava all’anca» (Gen 32,32).

Da quell’aspra lotta notturna Giacobbe uscì come un puledro domato. Da allora andò incontro a Esaù, il fratello che aveva furbescamente e ripetutamente raggirato e che ora poteva schiacciare lui e tutta la sua famiglia, non più in atteggiamento spavaldo, ma disarmato e consapevole che doveva ormai pagare le sue furbizie. «Giacobbe alzò gli occhi e vide arrivare Esaù che aveva con sé quattrocento uomini». Giacobbe allora «si prostrò sette volte fino a terra». Esaù, con la vittoria in mano sul truffatore, vinse due volte. Dice il racconto biblico: «Esaù gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò», e aggiunge «… e piansero» (Gen capp. 32-33).

L’onestà passa dunque attraverso l’esperienza spudorata della furbizia.

L’onestà non è merce di scambio

Nella teologia deuteronomistico-sapienziale l’onestà nelle relazioni umane è a più riprese elogiata e trasmessa come prezioso insegnamento che viene dalle vicende della vita, dai suoi rovesciamenti di sorte, dalle disillusioni giovanili, dal ricupero di senso del rispetto e dalla saggezza della tarda età: «La giustizia dell’uomo onesto gli spiana la via» (Pr 11,5); «È meglio avere poco con onestà che molte rendite senza giustizia» (Pr 16,8), ecc. Ma sorprendentemente quella stessa letteratura non perviene a definire con altrettanta lucidità l’onestà verso Dio. Il sapiente continua a rivendicare nei confronti di Dio la logica della retribuzione: poiché mi comporto bene e sono onesto, tu, o Dio, mi devi trattare secondo le regole della retribuzione che da me è meritata e che da te è dovuta.

Si andrà oltre solo quando Gesù deplorerà il fariseo che pregava dicendo: «Io non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo», ed elogerà il pubblicano che si batteva il petto senza osare alzare lo sguardo (Lc 18,9-14). Perché l’onestà non è merce di scambio né nei rapporti con Dio né nei rapporti tra gli uomini, ma è l’atteggiamento di chi sa dare e ricevere nella gratuità.