Le cause della povertà indiana sono state indagate e studiate da politici, sociologi, economisti. Antonia Tronti ci regala la risposta “misteriosa” dei samnyasin, dei “rinuncianti”. Percorrono le strade dell’India senza niente, ma da tutti sono nutriti, accolti, onorati, perché hanno messo al centro della loro ricerca l’Unico Necessario. Sono persone che hanno intuito che Dio lo si può perdere e che niente è necessario come la relazione con lui.

Barbara Bonfiglioli

La regalità di chi rinuncia

La spoliazione dalle cose possedute è, in India, un segno ammirato

di Antonia Tronti
studiosa di spiritualità indo-cristiana

Image 236Una terra che insegna

Uno dei timori che accompagna chi dal nostro Occidente decide di fare un viaggio in India è l’incontro con la povertà. Un incontro annunciato da immagini giunte ai nostri occhi attraverso foto, documentari, film, e da racconti, narrazioni, diari di viaggio arrivati alle nostre orecchie. Un incontro annunciato e - bisogna ammetterlo - mai deluso.

Molte cose sono cambiate in India negli ultimi anni. Ma certo ancora sono tante le persone che fanno delle strade il loro letto, che si lavano in fiumi o rigagnoli più sporchi della loro pelle, che si arrangiano alla giornata per procurarsi un po’ di cibo. Tutto ciò che noi identifichiamo con il fondamento della stabilità e dell’esistenza della persona (la casa, il lavoro, il salario) sembra lì per molti una prospettiva vaga e lontana… E quando la casa c’è, generalmente è molto diversa dalla nostra idea di casa. Acqua corrente, luce, bagni, pavimenti: tutto sembra non necessario. A volte perfino il tetto, costruito con materiali deperibili o instabili. Il ricordo dei film di Satyajit Raj, con il tetto della capanna spazzato via dal monsone e le difficoltà nell’assicurare pane ed educazione ai figli sembra lontano, ma non troppo… Ovviamente grandi differenze ci sono tra cittadine e metropoli, e tra città e villaggi, e da zona a zona. L’India è un vero e proprio continente, ed ogni riflessione rischia di generalizzare il non generalizzabile. Bisognerebbe viverci dentro ogni giorno per poterla comprendere. Ma l’impressione è che al suo interno non sia mai stato sentito come prioritario l’anelito a cambiare radicalmente la situazione, a “darsi da fare” per mutare totalmente rotta.

D’altra parte il grande mistero dell’India - e questo lo sappiamo o perché provato sulla nostra pelle o perché sentito dai racconti di chi è tornato da quel viaggio - è che nonostante l’alto indice di povertà, quella terra continua ad apparire come un luogo che ha tanto da insegnare. A noi che rispetto a loro sembriamo davvero ricchi di tutto, soprattutto di quelle che riteniamo, appunto, le cose basilari. Pochi di noi vivono senza tetto, senza acqua corrente, senza luce. Ci sono anche qui, certo, le persone che fanno della strada il loro letto, ma la proporzione è inconfrontabile.

Image 239La pratica della spoliazione

Eppure, quando un uomo indiano di un piccolo villaggio ti invita a casa sua e ti ritrovi davanti una casetta fatta di terra, con il tetto di palme e il pavimento di terra battuta, senza porta, senza letti, con un fuoco acceso su cui preparare all’ospite un buon chai (tè con latte e cardamomo), e ti presenta orgoglioso la moglie, i figli e - se fortunato! - la sua preziosa mucca, non puoi proprio dire, in quel momento, che quella persona è povera. Anzi. Ciò che senti arrivare dal tuo intimo è una voce di rimprovero: cosa te ne fai tu dei tuoi 60 metri quadrati finemente ammobiliati sbarrati dietro una porta blindata modello cassaforte? Questo è uno dei misteri più insondabili dell’India.

Quello che faceva dire ad Henri Le Saux che solo in un paese come quello si poteva imparare la necessaria pratica della “spoliazione”. In mezzo a persone vestite solo di una leggera striscia di cotone, avvolta intorno al corpo senza essere cucita. Quanto ci mette un occidentale a togliersi camicia, pantaloni, calze, scarpe? - rifletteva Le Saux. Per un indiano basta un gesto e la striscia di cotone cade giù. Più facile e immediato spogliarsi quando si possiede poco. L’incontro tra Gesù e il giovane ricco ce lo ricorda. Quanto è difficile per i ricchi entrare nel regno dei cieli! Quanto è difficile che pongano il loro cuore «dove tignola e ruggine non consumano»! Quanto è difficile che lascino cadere i loro beni e il senso di sicurezza che essi danno loro!

Non a caso il gesto di chi dedica la sua vita al Divino è denominato samnyasa, “rinuncia”, parola che contiene l’idea di “deporre tutto giù”, ovvero far cadere. Nulla più appare necessario. La stabilità è trasferita altrove. Nell’intimo del cuore, dove il Divino ha la sua dimora privilegiata. Più esattamente, nello “spazio” del cuore, che lo accoglie proprio in quanto spazio non ingombro.

La relazione imperdibile

Perciò i samnyasin, i “rinuncianti”, da sempre percorrono le strade dell’India senza nulla avere. Da tutti nutriti, accolti, onorati. Come se fossero principi e re. Perché di essi si rispetta e si venera la rinuncia ai beni, alle false sicurezze, in nome della relazione col Più-Grande. Tanto è rispettata tale rinuncia che nei poemi epici si racconta che anche re e principi, lungo la storia, si sono spesso “spogliati” delle loro ricche vesti e dei loro ruoli ed hanno indossato i panni dei rinuncianti.

In questo si rintraccia forse un’eco, elaborata in altra forma, della famosa frase di Gesù a Betania, quando viene rimproverato di accettare le attenzioni della donna che lo unge con prezioso olio di nardo. I suoi seguaci si meravigliano: i soldi spesi per quell’olio potevano essere usati per l’elemosina ai poveri. Ma Gesù replica loro: «I poveri li avete sempre con voi, me, invece, non sempre mi avete» (Mt 26,11; Mc 14,7; Gv 12,8). L’India sembra aver intuito già da qualche millennio quella risposta, mettendo al centro e al vertice della ricerca l’Unico Necessario e preoccupandosi meno di sanare la povertà. Come se avesse intuito che Dio lo si può perdere, dimenticare, non sentire presente. Ed invece bisogna tenerlo al primo posto. Perché niente è necessario come la relazione con Lui, unico fondamento vero dell’esistenza. Questo bisogna cercare di ricordare, quello bisogna sforzarsi di nondimenticare. Gli antichi testi sono tutti focalizzati su questa urgenza. E sono tutta una vertigine di Assoluto. Al cui confronto il quotidiano vivere, da poveri o da ricchi, impallidisce e scompare.

Certo, c’è un abisso tra gli insegnamenti di questa grande scuola spirituale e la vita delle odierne metropoli indiane. Molta ricerca si è persa e si sta perdendo. L’India si è mescolata con altre civiltà e altri modi di concepire la vita e di viverla. Capita di vedere sul tetto di una capanna una parabola televisiva o il più umile dei mendicanti girare per le strade con radiolina e cellulare o contraddizioni del genere. Ma nessuno che sia tornato da un viaggio in India può non riportare con sé il mistero della regalità della più povera delle donne indiane, vestita con un semplice sari di cotone, intenta purtroppo talvolta, a lavori umili e pesanti, eppure, al nostro sguardo, più di qualsiasi altra donna, regina.