Image 130Fioretti cappuccini

Di come frate Giuseppe lottò con i topi

Tetesco di Cermania

Frate Giuseppe era un cittadino tedesco che in patria si era diplomato come meccanico di precisione. All’età di ventiquattro anni venne in Italia per l’Anno Santo straordinario 1933, e in Italia rimase, vestendo poi, dopo varie esperienze in luoghi diversi, il saio cappuccino nel convento di Cesena. Padroneggiava in maniera perfetta, al pari della lingua materna, anche la lingua italiana, ma con marcato accento tedesco, con le tipiche consonanti più dure di una pietra: un vero “tetesco di Cermania”. Per questo, dopo la guerra, si era prestato presso la polizia di Cesena come interprete di documenti scritti in quella lingua incomprensibile a tutti, nonostante la lunga presenza delle truppe tedesche in quel territorio durante il conflitto.

Frate Giuseppe viveva nel convento di Cesena, collocato su un colle che si affaccia sulla città, e là si prestava per la questua o per trasportare, su una vecchia giardinetta Fiat, i confratelli che dovessero andare a celebrare la messa fuori città. Da buon tedesco, aveva imparato a suonare l’harmonium, con uno stile tutto suo, come se lo strumento suonasse pure lui con intonazione teutonica. Più tardi, dopo un apposito tirocinio fatto naturalmente in Germania, diventò pure organaro, con tanto di laboratorio ben fornito, e con la tipica precisione tedesca si prestava come restauratore di organi antichi, non mancando addirittura di costruirne lui stesso.

Ma frate Giuseppe aveva un debole, comune a tanta gente: l’amore per un gatto, che egli nutriva e, alla bisogna, curava. Ma si sa come vanno le cose. Un gatto che si trova sul piatto ogni giorno il pasto di cui ha bisogno non avverte più la necessità di acchiappare i topi o anche i ratti, i quali si permettevano di passargli accanto senza che egli si degnasse di allungare una zampina. Tutt’al più li guardava con aria di sufficienza, muovendo sinuosamente la coda, come per dire che quegli intrusi non erano affatto graditi ai suoi gusti.

Andando avanti così, nel laboratorio di frate Giuseppe, con tanti pezzi di legno e canne d’organo, avevano messo su casa dei topi, e, talora, anche dei ratti facevano delle scorribande, non solo notturne. Giuseppe sentiva quelle bestiacce muoversi e rovistare dappertutto, e quando li vedeva con i suoi occhi inorridiva per la ripugnanza. Ma questo era nulla al confronto dei danni che procuravano alle delicate canne d’organo appoggiate alle pareti e ai pezzi di legno scelto appoggiati alle pareti del laboratorio.

La trappola

Così che un giorno, stanco di vedersi le canne e il suo prezioso legno rosicchiati da quei roditori, e preso atto che suo “catto” non gli dava una mano, pardon una zampa, decise di costruire una trappola che mettesse quegli inquilini fuori dai piedi una volta per tutte. E la costruì davvero bene, forte della sua abilità di meccanico di precisione. Su una base di legno applicò un marchingegno trasparente con una porta basculante abbastanza ampia, che si sarebbe chiusa irrimediabilmente alle spalle dei topi e dei ratti, qualora fossero entrati, attratti dall’esca posta all’interno. Come esca si recò in cucina e chiese al cuoco un pezzo di carne, non però troppo piccolo, ma sufficientemente abbondante da risultare irresistibile per quegli intrusi.

Una sera pose la trappola sul pavimento del laboratorio e già si immaginava una processione di roditori affamati precipitarsi nella trappola e rimanervi rinchiusi senza possibilità d’uscita. Insomma era sicuro di avere a portata di mano la vittoria sui suoi indesiderati compagni di lavoro. Quella notte dormì sognando una trappola strapiena di topi e di ratti, e gli sembrava di ascoltare le canne d’organo suonare da sole, come per farsi beffe di quegli inquilini sempre affamati.

Sul primo mattino, appena cominciò ad albeggiare, prima dell’ora di recarsi in chiesa per la preghiera, quatto quatto scese le scale del convento e si recò al laboratorio. Aprì la porta sempre tenuta ben chiusa, attento a non fare il minimo rumore, e stette un momento in ascolto. Nulla. Accese la fioca luce posta all’ingresso e volse lo sguardo verso la trappola. Non era vuota! Stava per esultare, quando, avvicinandosi, ebbe la sorpresa che l’animale catturato non assomigliava per nulla a un topo e neppure a un ratto. Era alquanto più grosso e peloso. Si avvicinò meglio per vedere, ma solo per scoprire con disappunto che l’animale intrappolato era un gatto, il suo “catto”, che se la dormiva beatamente, come dopo un abbondante pasto. «Stùpito!», gli scappò di dire con un accento tedesco ancora più marcato del solito.

A frate Giuseppe non rimase che smontare la trappola, perché, per un gatto, altro era entrarvi e altro uscirvi, e liberare il suo amato animale, che continuò a far miagolìi e a strofinargli le gambe quando esigeva il suo pranzo, mentre i topi seguitarono indisturbati a rosicchiare delicate canne d’organo e preziosi pezzi di legno. In barba a frate Giuseppe, valente organaro sì, ma tutt’altro che esperto nel catturare i topi.