La porta di ogni convento è sempre larga e aperta a chiunque, come lambita da un mare di necessità e di povertà. Questa volta si parla del convento-parrocchia di Bologna, presa d’assalto dai poveri. Continuano poi i “fioretti cappuccini” con frate Giuseppe a caccia di topi.

Nazzareno Zanni

Il vangelo delle briciole

Situazioni, precisazioni e riflessioni sul modo di fare l’elemosina

Image 124Per dirla tutta

Elemosina? Un termine alquanto faticoso da pronunciare. La prima immagine che viene in mente è il gesto di chi deposita nelle mani o nel cappello di un poveretto alcuni spiccioli. Bontà sua, si dirà. Eppure l’“elemosina” è qualcos’altro: è “avere compassione”, com-patire, soffrire insieme o, meglio, farsi carico della sofferenza altrui. Il che è ben più che lasciare cadere una monetina nelle mani di chi vive la povertà come una coercizione delle circostanze della vita.

A tutto questo si riferiva Gesù, quando si trovò di fronte a una folla, che, affamata della sua parola, aveva dimenticato di portarsi dietro persino da mangiare: «Sento compassione di questa folla: ormai da tre giorni mi vengono dietro e non hanno da mangiare» (Mt 15,32). Una compassione, la sua, che non si limitò a essere un sentimento, ma che seppe trasformarsi nel gesto concreto di spezzare il pane per tutti. «Quanti pani avete?», chiese Gesù ai discepoli. «Sette, e pochi pesciolini», risposero (Mt 15,34). La compassione portò Gesù a dare tutto quanto i discepoli avevano di scorta. Fu la sua “elemosina”. Così i sette pani e i pochi pesciolini i discepoli se li videro moltiplicare tra le mani.

Da sempre ci si interroga se l’elemosina ai poveri sia un dovere, su quanto debba essere dato e a chi. Nel cercare di dare una risposta accettabile, molti si appellano alla traduzione a orecchio della frase, in latino, del vangelo di Luca: «Quod superest date elemosynam» (Lc 11,41), e cioè “il superfluo datelo in elemosina”. Questa traduzione, però, non corrisponde al significato autentico dell’elemosina e della compassione nel pensiero di Gesù, perché il contesto in cui fu pronunciata la frase ha ben altro senso.

Un giorno Gesù fu invitato a pranzo da un fariseo, che lo contestò perché, prima di mettersi a tavola, non aveva fatto le abluzioni rituali prescritte. Gesù gli rispose: «Voi farisei purificate l’esterno della coppa e del piatto. Stolti! Piuttosto date in elemosina quel che c’è dentro» (Lc 11,39-41), cioè nel bicchiere e sul piatto. Il che è tutt’altra cosa che il superfluo, quello che è in più e non si sa che farsene, ma quello che ciascuno ha nel piatto. È come se Gesù dicesse: “Condividi con gli altri il pane che tu stai mangiando”.

L’elemosina evangelica porta a condividere i beni posseduti e a riconoscere che i beni della terra non sono riservati a pochi, ma destinati a tutti. Il pane che stai mangiando non è solo tuo. Che tu stia forse mangiando anche il pane degli altri? È fuorviante credere di mettersi la coscienza a posto, lasciando agli altri solo le briciole che cadono dalla tavola.

C’è chi bussa a ’sto convento

Tutti i giorni, alla porta del convento di Bologna si presentava gente venuta dall’Est o dal Nord Africa. Venivano a spizzico, senza un ordine prestabilito, e il frate portinaio, che ormai conosceva tutti, dal finestrotto della sua guardiola allungava un sacchetto con pane e tonno, senza chiedere alcunché, se non segnarne il numero. Non erano poveri come intendiamo abitualmente, ma gente che aveva un lavoro insufficiente o gente in cerca di lavoro, che considerava quel sacchetto un piccolo ma prezioso aiuto quotidiano. Non mancavano episodi in cui il bisogno spingeva gli “avventori” della trattoria conventuale anche ad atti violenti, ma il frate portinaio aveva preso le sue contromisure, tenendo, nascosto ma sempre a portata di mano, un randello nocchieruto. Una precauzione più che legittima, perché i poveri non sempre sono facili da trattare o amabili. A volte capitava che facessero della loro povertà un’arma di offesa e di sopruso. Bastava però la vista di quel randello per calmarli e condurli a più miti consigli, senza bisogno di accarezzare le spalle a nessuno.

Il sabato, assentandosi il frate portinaio, questa gente doveva bussare al portone alle loro spalle, a quello della parrocchia, dove il frate parroco assieme a diversi volontari li attendeva per consegnare loro un sacchetto con vari generi alimentari, per lo più consumabili senza l’aiuto della cucina. Allora erano frotte di bisognosi, ritmati dall’arrivo del bus cittadino, che si affacciavano al pertugio del portone per ritirare quel ben di Dio, sufficiente per almeno una giornata. Si vedeva a occhio nudo che era la fame a richiamarli, in quanto già sul piazzale alcuni cominciavano a mettere sotto i denti quello che era commestibile come colazione. Era una vera calca, una fila a volte lunga come il porticato tra il portone della parrocchia e quello del convento, con volti di tutte le provenienze e con lingue che sapevano del mondo intero. I numeri erano spropositati, a volte anche superiori ai cinquecento, ma, si sa, la porta di ogni convento, parrocchia o meno che sia, è sempre larga e aperta a chiunque, come lambita da un mare di necessità e di povertà.

Image 126Un povero come Lazzaro

Non tutti però si davano appuntamento insieme. C’era anche un povero solitario, che rifuggiva la calca. A qualsiasi ora veniva a bussare alla porta del convento, elemosinando un po’ di pane con qualcosa da insaporirlo e qualche soldo. Si chiamava Giovanni, ed era un poveraccio come il Lazzaro della parabola evangelica. Si definiva - bontà sua - «il figlio di Dio». E ne era ferocemente convinto. Era un uomo che, con il temperamento bizzarro che si ritrovava, aveva fatto della libertà e della povertà una scelta - forse obbligata - di vita. Un uomo che non esigeva più del necessario per tirare a campare, accontentandosi delle briciole che cadevano dalla mensa della grassa Bologna. Un uomo che citava il vangelo a memoria e lo buttava brutalmente in faccia a chi incontrava, tanto che lo avresti definito uno sputasentenze molesto. Un uomo scomodo, che vestiva indumenti impossibili, che si lavava alle fontane pubbliche, spesso anche alla fontana accanto al convento, che non conosceva né scarpe né sandali, e che dormiva sotto le stelle, estate o inverno che fosse. Un uomo emarginato dalla società civile ed evitato dalla gente, che egli, a sua volta, non tentava neppure di avvicinare, forse per non incutere paura a nessuno. Anche i cani stavano alla larga da lui. I frati del convento lo chiamavano affettuosamente «Giovannino», e lo accoglievano dandogli una mano, ma solo come e quando lui voleva.

Giovannino, un pomeriggio d’estate, morì, come avviene prima o poi per tutti. Morto per ictus nel centro della città, hanno riferito i giornali, anche se non mancavano voci che fosse stato stroncato da botte ricevute chissà dove. A ogni modo, un morto da dimenticare il più presto possibile, perché non vi era chi ne sentiva compassione. Fu sepolto in tutta fretta non si sa dove, senza alcun funerale, perché nessuno ne aveva reclamato la salma. Ma nella tomba di Giovanni, «il figlio di Dio», un poveraccio da tutti schivato anche da morto, non fu schivato da Dio: su di lui brillò la luce di Colui che non dimentica il grido degli afflitti (Sal 9,13) e ascolta il lamento dei poveri (Gb 34,28), quel Dio che Giovannino, pur nella sua originalità, aveva sempre cercato in vita, assieme a quel pezzo di pane e a quel poco denaro che gli veniva dato alla porta del convento.