Vai e vivrai

Vita e pensiero di un venditore porta a porta extracomunitario

di Pietro Casadio
della Redazione di MC

Image 082Mister A

Lo chiamerò Mister A. A come Africa, naturalmente, il grande continente da cui viene, la casa che si porta sempre nel cuore. A come la prima lettera dell’alfabeto, il principio di ogni cosa, perché non è forse vero che tutto è partito dall’Africa? A come Amico, per ringraziarlo di aver speso del tempo a rispondere alle mie (occidentali) domande.

Mister A ha quarantun anni, viene dalla Nigeria e sta in Italia dal 1997. Abita a Verona con una moglie anglo-nigeriana e due figli, una signorina di quattro anni e un bimbo di due. Di mestiere fa quello che diremmo vu’ cumprà, con tanti saluti al politicamente corretto che ci rende moralisti nel linguaggio e amorali nella vita. Viene a casa nostra da parecchi anni ormai, siamo clienti affezionati, e ultimamente i nostri rapporti si sono intensificati grazie a una prodigiosa operazione di baratto: arriva per pranzo gridando «Arriva incubo!», si insedia davanti al computer, usa Skype e internet per un po’ e in cambio ci regala montagne di calzini e alcune paste che qualche forno, chissà, gli avrà dato. È un bel tipo: scherza e parla forte intercalando un continuo «you know» nei suoi discorsi. Una volta, tempo fa, devo avergli detto di aver partecipato da piccolo alle Olimpiadi della Matematica; da allora si è convinto che io sia una mente prodigiosa e porta avanti la sua lenta e insistente opera di conversione per farmi abbandonare gli studi letterari e abbracciare quelli scientifici. Ride parecchio, ma ha anche molto tatto. Mi ricordo quella volta che venne da noi, era appena morta mia madre. Chiese della “signora” (l’addetta al commercio) e alla nostra risposta ci rimase malissimo, radunò le sue cose per andarsene velocemente e disse «Niente business oggi». L’unica cosa che volle sapere fu «Aveva fede?» e al nostro sì disse «Questo è importante». E se ne andò.

È opportuno precisare una cosa: tra gli immigrati in Italia Mister A non è di certo tra i più poveri, anche se non sguazza nell’oro. Si capisce da alcuni particolari, da qualcosa che dice, e da quelle volte che su Skype chiede al medico se gli può dare qualche campione di medicina per il figlio che ha l’influenza o chissà che. No, decisamente non sguazza nell’oro: un italiano al suo posto si sentirebbe sotto la soglia di povertà, ma come dice Leopardi “tutto è relativo” e in questi casi sembra proprio che abbia ragione. Comunque, insomma, tira avanti: la moglie fa la parrucchiera da parecchi anni, lui ha passato molti lavori prima di questo: conciatore, falegname, aiuto cuoco («perché i cuochi solitamente sono bianchi»), magazziniere. Tutti contratti di tre mesi, sei mesi, un anno. Quando gli chiedo se si sente fortunato risponde «Sono fortunato, sì. Ho una casa dove vivere, ho da mangiare e ho la salute, you know. C’è chi vive meglio, c’è chi vive peggio, però non mi posso lamentare». Quando si dice prenderla con filosofia («con?»): «Io la penso così naturalmente: finché c’è speranza, finché sono vivo, you know, devo lottare continuamente; poi cerco anche qualcosa di più». Scopro che ha un diploma come consulente commerciale ed è quello il lavoro che desidera. Voler fare quello per cui si ha studiato, oh come lo capisco.

Relazioni internazionali

Torna in Africa periodicamente, Mister A. All’inizio più spesso, poi un po’ meno: il volo costa e qui ormai c’è la sua famiglia. Però gli manca casa sua. A me verrebbe da dire che gli manca l’Africa, perché ho in testa che l’Africa sia un unico pezzo non smontabile. Ma più che una generica Africa gli manca casa sua e la Nigeria.

È un interessante punto di vista il suo, dico davvero. Dovremmo fare tutti l’esperienza di vedere la nostra Italia con i suoi occhi: semplici e terribilmente veritieri. Alcune cose sono grandi classici che tutti abbiamo già sentito e che per questo crediamo meno veri: «La cosa che ho notato è che qui la gente vive in modo non naturale, you know. Da noi c’è poco, ma si vive in modo più allegro e divertente, è una vita più interiore. Tu puoi avere la macchina, ma è diversa la vita vera, questa manca un po’, qui in Europa». Parole sante.

Image 089Il suo punto di vista (che forse Brecht definirebbe straniante e quindi educativo) si fa ancora più interessante quando mi racconta del suo lavoro perché «vedi bene come sono le persone quando fai mercato». Come sono gli italiani visti con gli occhi di un vu’ cumprà? «Come in tutte le parti c’è il buono e il cattivo, ma io sono orgoglioso degli italiani perché in loro c’è una solidarietà che non ti lascia morire di fame». Almeno quello, penso io, grazie al cielo non siamo assassini: «se bussi alla porta e dici “ho fame” ti danno da mangiare. In Germania puoi anche morire di fame che a nessuno frega niente, però là lo Stato ti dà una mano. Qua lo Stato non fa niente, ma ti aiutano le persone, you know». Curiosa questa contrapposizione Italia-Germania. E devo dire che, se dovessi scegliere una delle due vie, sceglierei quella italiana: più popolare. Diciamo Italia-Germania 4 a 3. Ma ecco il contropiede: «Un aspetto che non mi piace però degli italiani è l’ipocrisia». Ahi, arriviamo ai mali congeniti del nostro popolo: «Ci sono persone carine davanti, che ridono, ma solo superficialmente, non nel profondo. Io capisco bene quello che le persone pensano di me. Sento quando c’è della diffidenza e non torno da loro». Memorandum: ricordarsi di essere sinceri; ridere nel profondo.

Poi racconta un episodio, un inganno dell’ipocrisia. Mi fa tremare per la malinconia che porta appresso e la verosimiglianza che colpevolizza tutti noi buonisti e perbenisti. È estate e si reca presso una famiglia di clienti abitudinari: «credevo mi volessero bene, era un po’ come famiglia», dice, «come padre e figlio». Chiede un bicchiere d’acqua, uno dei due coniugi va di là, ci mette un po’, Mister A sente frugare e infine gli viene portata l’acqua dentro un bicchiere. Di plastica. Già, come se avesse qualche malattia. «Non mi sento più di bere», dice, e poi: «non mi sento di venire più qui, grazie per quello che avete fatto per me». Loro insistono, si scusano, si arrampicano sugli specchi (questa espressione la uso io), ma niente, lui lì non tornerà. Semplice e terribile.

You know

Un ultimo appunto, l’argomento forse più sentito. Gli chiedo se adesso ha la cittadinanza italiana e lui risponde «Sarebbe già ora che me la dessero!». Un’altra vittima della Bossi-Fini che, a suo dire, «è una legge razziale». Credo che intenda una legge razzista, ma il paragone con le leggi nazifasciste mi impressiona. Quello che proprio non riesce a capire è il perché i suoi figli che sono nati in Italia e fanno le scuole in Italia non siano italiani. Vaglielo te a spiegare il perché.

Povero, sarebbe Mister A. Più che i soldi è la carta di identità che gli manca. Anche questa è povertà. Ma è solo superficie, è una povertà materiale, perché dentro il cuore di povertà ne ha ben poca. Perché in fondo tu puoi avere un passaporto, you know, ma è diversa la vita vera.