Qualcosa di fatto, tanto da fare

Mappa della povertà, dove essa confina con malattie ed emarginazione

di Pier Paolo Balladelli
medico dell’Organizzazione Mondiale della Sanità delle Nazioni Unite

Image 065Storie come troppe

Siamo a Luanda, la capitale dell’Angola di dieci anni fa. Amando dovrebbe avere sui nove anni. È magrissimo, ma ha la pancia rotondetta tipica di chi ha sofferto di parassiti intestinali per anni. Mi si stringe il cuore vedendolo su quell’enorme montagna di rifiuti cercando qualcosa da mangiare. La montagna puzza e dà nausea. Gli chiedo: «Dov’è la tua mamma?». Mi guarda accigliato. «Non lo so. La mia mamma non è più tornata a casa da molto tempo. Vivo con il mio papà». «E cosa fa il tuo papà?». «Il mio papà non ha lavoro. È spesso ubriaco. Quando diventa triste, beve». «Che cosa fai qui su questa montagna di rifiuti?». «Sto cercando qualcosa da portare a casa da mangiare per me, per lui e per gli altri due fratellini più piccoli di me».

Amando è povero e penso che dovrebbe davvero essere amato. Ma non è l’unico a soffrire la fame. Come lui, altri 800 milioni di persone nel mondo oggi andranno a letto con la fame. La fame è una delle conseguenze della povertà. Così come spesso lo è la malattia, e viceversa. L’evidenza parla chiaro: nel mondo, più del cinquanta per cento delle risorse di una famiglia povera viene destinata a curare malattie. Chi è povero non fa prevenzione sanitaria perché non sa cosa deve fare o perché le sue condizioni poverissime non glielo consentono. Chi è povero è costretto a vivere in una dimora poco salubre, spesso un tugurio di un’unica stanza dove vive tutta la famiglia. Il povero non riesce ad accedere all’istruzione, a vestiti, non può definire un progetto di vita ed è costretto a condizioni sociali che determinano la sua esclusione dalla vita sociale. La sua preoccupazione è come riuscire a sfamarsi e a sopravvivere giorno dopo giorno.

Raquel e Marcos sono una giovane coppia che vive a Città del Messico. Sono entrambi disoccupati. Hanno due figli, una bimba di un anno e mezzo e l’altro di tre mesi che è morto nel sonno asfissiato tre giorni fa. Marcos è andato a comprare calce viva per seppellire il piccolino in un otre di terracotta, utilizzando un metodo funebre ancestrale. È disperato perché non ha denaro per dargli una sepoltura dignitosa. Avevano deciso di suicidarsi perché non erano neppure in grado di alimentare Socorro, la bimba. Poi, i vicini hanno trovato la coppia ancora viva in un seminterrato e la piccola, abbandonata, in condizioni molto critiche di denutrizione. La disperazione e l’incapacità di provvedere ai bisogni fondamentali legati alla sopravvivenza possono determinare nelle persone comportamenti violenti.

Luz Milagro di Puerto Cortez in Honduras è una bambina di sei mesi ed è la più piccola di sei fratelli. Il più grande, Antonio, ha nove anni. Da pochi mesi è morta la loro mamma, probabilmente di sida. Aveva appena ventotto anni. Ora è rimasta la nonna a occuparsi di loro. Riesce a guadagnare qualcosa preparando corone di fiori ed altre piccole decorazioni che poi vende sulla strada. Sta coccolando Luz Milagro e parla, davanti al fuoco acceso nella piccola abitazione, agli altri cinque piccoli. Dice loro di non uscire di casa la notte, di dire una preghiera, di aiutarsi l’un l’altro e di andare a scuola.

Jessie vive negli Stati Uniti. Vuole finire il liceo e andare all’università, ma deve occuparsi delle due sorelle minori, mentre il papà guadagna un misero stipendio guidando un camion dodici-quattordici ore ogni giorno. Non ha un contratto fisso. È obeso e soffre di cuore. Forse avrà presto bisogno di cure, ma lavora senza copertura assistenziale. Jessie si chiede se riuscirà a continuare la scuola. Vorrebbe essere come tanti altri giovani che vanno all’università.

I protagonisti delle nostre storie vivono in una condizione dalla quale è difficile, quasi impossibile, uscire. È un circolo vizioso che condanna quasi inesorabilmente all’emarginazione. La denutrizione ed i suoi effetti deleteri sulla crescita psico-fisica, la mancanza di istruzione, l’uso di tabacco, di alcolici e di droghe, i comportamenti violenti, la malattia, l’assenza di una casa decente sono alcune delle cause e delle conseguenze della povertà che portano a un’inesorabile esclusione sociale.

Queste persone e famiglie vedono loro negato l’accesso ai beni e ai servizi primari: non riusciranno ad inserirsi nella società con un progetto e con la possibilità di esercitare i loro diritti fondamentali. Nelle occasioni più fortunate in cui il povero riesce a produrre un reddito, o trova occupazione, le condizioni sono spesso precarie, ed in assenza di sicurezza e di protezione sociale.

Image 070Il percorso intrapreso

In questi trent’anni di vita e di lavoro nell’ambito internazionale ed ora a capo di un’agenzia delle Nazioni Unite, mi sono trovato frequentemente a contatto con individui, gruppi e popolazioni che vivono in estrema povertà, e che sono vittime dell’esclusione sociale. Quando nell’anno 2000 i Paesi firmarono la dichiarazione del millennio con otto mete considerate fondamentali per lo sviluppo umano, la lotta alla povertà e alla fame divennero un obiettivo primario. Di fatto, se si eliminasse la povertà, si potrebbe non solo evitare la fame, ma anche migliorare la salute dei bambini, degli adolescenti e delle donne. Si potrebbero anche limitare o sconfiggere malattie come l’HIV-Sida, la tubercolosi, la malaria e cosi via.

Questa decisione mondiale che ha come orizzonte il 2015, ha orientato il lavoro delle istituzioni che lavorano per lo sviluppo. Le ONG internazionali, le agenzie del sistema delle Nazioni Unite, la società civile nelle sue varie espressioni, la Chiesa, in tutti questi anni hanno combattuto fianco a fianco con gli Stati e le loro popolazioni per un obiettivo comune: dimezzare la percentuale della popolazione che soffre la fame. Hanno attivato programmi di formazione, di produzione, di salute e di educazione; le agenzie delle Nazioni Unite hanno appoggiato i governi dei Paesi e le istituzioni nazionali per identificare i poveri, togliendoli dall’anonimato, per poi suggerire e appoggiare politiche e strategie nazionali e locali per combattere la povertà. I governi hanno adottato misure più incisive di distribuzione della ricchezza e soprattutto per migliorare l’accesso ai beni e servizi pubblici come la sanità, l’educazione, la casa. Gli Stati stanno realizzando trasferimenti monetari alle famiglie più povere, condizionandoli all’uso di servizi sanitari e scolastici.

Di fatto, se prendiamo come soglia della povertà estrema il reddito individuale di meno di un dollaro per giorno, questa categoria di persone è quasi dimezzata rispetto al 1990. Tale riduzione è stata più accentuata in Asia e Medio Oriente a differenza dell’Africa subsahariana, nella quale non vi è stato un miglioramento evidente.

Però la popolazione mondiale nel frattempo è cresciuta ed è aumentato il costo di vita. Inoltre, non è affatto inusuale che una famiglia che abbia un reddito superiore alla soglia minima della povertà possa ugualmente trovarsi in condizioni di miseria perché quei pochi denari non sono impiegati per mangiare in maniera sana e per vestirsi, ma per comprare alcolici, sigarette e fast food che fanno ammalare. L’emarginazione, l’ignoranza o semplicemente l’esclusione sociale diventano poi spesso occasione di violenza domestica sulle donne e sui figli.

In questi anni, un’azione nella quale mi sono impegnato molto è stata la costruzione e diffusione di idee e di strumenti che consentano di disaggregare le medie nazionali. Le medie nascondono spesso delle disuguaglianze drammatiche. Nel continente americano, ad esempio, più del 90% dei poveri vivono in Paesi che sono ricchi o benestanti. Di fatto, esistono qui grandi disuguaglianze, che potrebbero essere corrette qualora evidenziate. La chiamiamo la mappa dei poveri. In altre parole, aiutiamo le istituzioni e gli Stati a identificare chi sono e dove vivono le persone ed i gruppi con i maggiori ritardi in campo sanitario, ambientale e sociale. Il secondo passo è capire quali possano essere le politiche e le strategie capaci di diminuire le disuguaglianze. Lavoriamo con le comunità affinché migliori la loro capacità di negoziazione con lo Stato. Elaboriamo con le autorità i programmi finalizzati alla diminuzione delle disuguaglianze evitabili. E infine le appoggiamo nel monitoraggio dei processi e nella valutazione dei risultati. In altre parole, dobbiamo analizzare e combattere la disuguaglianza andando a cercare i poveri là dove essi vivono mettendo in atto strategie realmente efficaci.

Costante ricerca della giustizia

E veniamo all’ultimo punto di questo mio contributo. Perché dobbiamo sostenere le ONG, le agenzie e gli Stati contro la povertà? È la poca chiarezza sui principi la causa dei cattivi risultati o delle sconfitte totali. Chi crede nell’uguaglianza e nella giustizia sociale, invece di limitarsi a parlarne, farebbe bene a rimboccarsi le maniche per concretizzarle in questa vita e non nella futura. Chi ritiene che il benessere sia alla portata di tutti, solo che lo vogliano, farebbe bene ad esaminare i vantaggi di un mondo dove ci fossero l’uguaglianza e la giustizia sociale, includendo anche la ripartizione equanime della ricchezza. L’evidenza mostra che la polarizzazione della ricchezza e l’ingiustizia portano inevitabilmente a tensioni sociali, spesso a crisi se non alla guerra. Diventa quindi davvero urgente per tutti darsi da fare per l’eliminazione della povertà e per la costruzione di un mondo caratterizzato dalla giustizia sociale.