Il cammino di un sogno
Chiesa povera, apertura di un problema nella dialettica ecclesiale
di Giuseppe Ruggieri
teologo
Il cardinale Carlo Maria Martini, nel suo libro Conversazioni notturne a Gerusalemme, ha una pagina che suscita un certo turbamento: «Un tempo avevo sogni sulla Chiesa. Una Chiesa che procede per la sua strada in povertà e umiltà, una Chiesa che non dipende dai poteri di questo mondo. Sognavo che la diffidenza venisse estirpata. Una Chiesa che dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto. Una Chiesa che infonde coraggio, soprattutto a coloro che si sentono piccoli o peccatori. Sognavo una Chiesa giovane. Oggi non ho più di questi sogni».
Davvero dobbiamo abbandonare il sogno di una Chiesa che procede in povertà e umiltà? Eppure le parole di Martini sanno di realismo e di onestà intellettuale. Ma forse non ci dicono tutto. Giacché quelle parole tanto sono vere, quanto sono bisognose di spiegazione. Infatti, chi dice di non sognare più, non smette di pensare con nostalgia al sogno. Ed è di questa nostalgia che bisogna allora parlare, perché essa costituisce una spina al fianco di tutti coloro che credono nel vangelo.
Il tempo dei sogni
Il tempo dei sogni fu il Concilio. Paul Gauthier, un prete scomodo che viveva da anni a Nazaret dove aveva dato vita a una comunità impegnata nella testimonianza della povertà, «I compagni di Gesù carpentiere», aveva promosso, coinvolgendo un folto numero di vescovi e teologi e sostenuto dal card. Gerlier di Lione, una vera e propria attività di lobbying per suscitare la sensibilità dei padri conciliari verso una chiesa povera e dei poveri. Il luogo conciliare ove si elaborarono le tematiche della povertà, durante il Concilio, operava fuori dell’aula di San Pietro e veniva chiamato il gruppo del collegio belga, animato da Gauthier e con la direzione operativa dei vescovi Charles-Marie Himmer, vescovo di Tournai in Belgio e Georges Hakim vescovo di Nazaret.
Il 6 dicembre 1962, alla fine del primo periodo conciliare, riprendendo a modo suo la voce di quanti avevano già chiesto che fosse inserito il tema dell’evangelizzazione dei poveri, Lercaro diede profondità storica e teologica al tempo stesso a quell’istanza. A suo avviso infatti se il tema principale del Concilio doveva essere
Lercaro pose il problema non solo sul versante che poi sarà quello dell’esortazione di Paolo VI, Evangelii nuntiandi, e cioè dell’annuncio ai poveri, ma più a monte nel mistero stesso di Cristo e - conseguentemente - nell’essere della Chiesa. Per questo egli chiedeva una formulazione della dottrina evangelica della divina povertà del Cristo nella Chiesa: il mistero dell’elezione divina che ha scelto la povertà come un segno e un modo preferenziale di presenza e di forza operativa e salvifica del Verbo incarnato tra gli uomini.
Il discorso di Lercaro fece grande impressione, ma la prospettiva non fu di fatto recepita in tutta la sua ampiezza. Il tema della Chiesa povera non divenne l’asse dei lavori conciliari, come aveva chiesto l’arcivescovo di Bologna. E tuttavia esso fu recepito in un testo quanto mai incisivo: quello della costituzione sulla Chiesa, Lumen Gentium 8,3: «Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure
Lumen Gentium 8,3 restò un testo sostanzialmente isolato e i tentativi sia dello stesso Lercaro che del gruppo di Gauthier non ebbero alcun riscontro. Le loro proposte non furono nemmeno inoltrate a papa Paolo VI, ma dal Segretario di Stato Cicognani trasmesse al card. Tisserant, presidente della commissione per la revisione degli abiti e degli ornamenti prelatizi, cogliendo evidentemente l’aspetto più esteriore di quelle proposte e riflessioni.
Il 16 novembre del 1965, pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II, una quarantina di padri conciliari celebrarono un’eucaristia nelle catacombe di Domitilla, a Roma, chiedendo fedeltà allo Spirito di Gesù. Dopo questa celebrazione, firmarono il cosiddetto “Patto delle Catacombe”. Il documento è una sfida ai “fratelli nell’Episcopato” a portare avanti una “vita di povertà”, una Chiesa “serva e povera”, come aveva suggerito papa Giovanni XXIII. I firmatari - fra di essi, molti brasiliani e latinoamericani, poiché molti più tardi aderirono al patto - si impegnavano a vivere in povertà, a rinunciare a tutti i simboli o ai privilegi del potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale. Il testo ha avuto una forte influenza sulla Teologia della Liberazione, che sarebbe sorta negli anni seguenti.
La delusione e la spina al fianco
Senza paura di essere smentiti si può affermare che il testo di Lumen Gentium 8,3 sia, con l’eccezione dell’America Latina attorno agli anni prima e dopo l’assemblea di Medellin (1968), il testo più censurato da parte del magistero cattolico, papa e vescovi, negli anni che ci separano dal Concilio. Si parla di annuncio ai poveri, dell’ideale della povertà per i preti e i religiosi, ma non della Chiesa che nella sua missione deve imitare lo stile di povertà del Cristo.
Tuttavia il Concilio ha lasciato una spina al fianco. Per comprendere quest’affermazione occorre una considerazione storica di lungo periodo. Con un’intensità che raggiunge il suo apice negli anni del Concilio, il tema della povertà della Chiesa s’impose lungo il Novecento facendo tuttavia riapparire in superficie un percorso carsico che attraversa la storia della Chiesa per lo meno a partire dal IV secolo. Infatti è nel IV secolo che si istaura fondamentalmente un rapporto nuovo da parte della Chiesa, sia con la società (una Chiesa sempre più di massa o di “popolo” - ma in un senso che non è quello di “popolo di Dio”) che con lo stato, a partire dal momento in cui questo riconosce il cristianesimo prima come religio licita e poi come unica religione legittima. Parlare di una Chiesa povera, a partire dal IV secolo, diventa puro eufemismo.
Tutto ciò non poteva che porre gravi problemi alla sensibilità dei credenti affezionati alla purezza del vangelo, che cominciano a sognare un ritorno alle origini. Basta rileggere le Collationes di Cassiano (IV-V secolo) per rendersene conto. Il fascino della “forma della Chiesa primitiva” sarà quindi motivo di inquietudine costante. Tuttavia occorre comprendere ancora come il confronto tra stile/forma di Cristo e stile/forma della Chiesa, lungo le varie epoche della vicenda cristiana, abbia dato esiti molto differenti. Si pensi sempre in questo contesto ai movimenti pauperistici del Medioevo. Per lo più allora la ricerca della forma Christi veniva a configurarsi in termini ereticali (dove non si vuol dire che l’intenzione fosse ereticale, ma che le circostanze storiche facevano sì che un pauperismo radicale assumesse quasi inevitabilmente un profilo ereticale). Il grande merito di Francesco fu appunto la composizione dialettica tra forma evangelii e forma ecclesiae romanae (Testamento del 1226). Ma in altre epoche il confronto tra la forma Christi/evangelii e la forma della Chiesa assumerà profili differenti ancora. Il problema della povertà come stile della Chiesa occorre quindi che sia colto nella sua dimensione di lunghissimo periodo, come ferita sempre aperta da quella particolare configurazione della Chiesa che si è aperta nel IV secolo. L’imbarazzo delle chiese nella recezione di LG 8,3 va posto qui ed occorre prendere allora il toro per le corna. Ma storicamente occorre riconoscere anche che la ferita è appunto sempre aperta e continua ad esserlo.
Il Vaticano II apre e chiude un’epoca. Non è più la “questione operaia” che s’impose lungo l’Ottocento e la prima metà del Novecento il contesto storico che interroga
A mio avviso, per capire la portata “dogmatica” del testo conciliare, alla luce di queste brevissime considerazioni, una conclusione si impone: il Concilio ha dato diritto di cittadinanza “dogmatica” e istituzionale al tema. Richiamarsi alla via Jesu è oggi un diritto riconosciuto nella Chiesa. Mi pare che, al di là della marginalità o meno del motivo formulato in LG 8,3, rispetto all’insieme dei testi conciliari, questo sia un dato incontrovertibile. All’interno di un’ermeneutica storica, la novità dottrinale e, se si intende correttamente il termine, “istituzionale” del Concilio, per il problema che ci interessa, sta proprio qui: la forma ecclesiae non può rinunciare alla forma Christi. Mi pare cioè che si sia per così dire istituzionalizzata la dialettica tra forma ecclesiae e forma Christi e che