Non di solo spread vive l’uomo

La grande attualità di Amos nell’indicare la giustizia come sano criterio economico 

di Valentino Romagnoli
cappuccino, biblista, incaricato della pastorale giovanile

Image 015Prologo

La scena si ripete uguale a quella sempre vista, ma ora con una variante inimmaginabile fino a qualche anno fa: un ragazzo entra in biblioteca il lunedì mattina, accende il suo portatile, si collega a internet e dopo qualche attimo di trepidazione esulta. «Ieri la Juve ha vinto?» chiede un vicino. «No, lo spread è in discesa».

Amos: un illustre sconosciuto

Nella collezione dei dodici Profeti Minori troviamo il libro di Amos. Questo profeta non può essere certo considerato il più grande tra i profeti sorti in Israele e neppure uno dei più conosciuti; ciononostante la sua figura riveste un’importanza fondamentale nella tradizione biblica perché è il primo a dare il proprio nome a un libro, inaugurando così la lunga lista dei “profeti scrittori”.

Il libro è relativamente breve (9 capitoli per 146 versetti) e presenta la drammatica storia di un profeta dalla predicazione indomita e tempestosa: punto centrale del suo messaggio è la denuncia dell’ingiustizia e della falsa religiosità affinché «come le acque scorra il diritto e la giustizia come un torrente perenne» (5,24). Il suo argomentare scomodo e irriverente è un grido di denuncia più che di speranza, uno strale contro la ricchezza iniqua e la falsa religiosità più che una consolazione per i poveri: «il Signore ruggirà da Sion e da Gerusalemme farà udire la sua voce; saranno avvizziti i pascoli dei pastori, sarà inaridita la cima del Carmelo» (1,2).

L’esordio del libro ci fornisce alcune indicazioni per collocare Amos e la sua vicenda nelle coordinate dello spazio e del tempo: «Parole di Amos, che era allevatore di pecore, di Tekoa, il quale ebbe visioni riguardo a Israele, al tempo di Ozia, re di Giuda, e al tempo di Geroboamo, figlio di Ioas, re d’Israele, due anni prima del terremoto» (1,1). Tekoa è un antico villaggio ancor oggi esistente (l’odierna Tuqu’) situato a dodici km a sud-est di Betlemme. Amos era dunque un giudeo ma non profetizzava su Giuda bensì su Israele, il regno ebraico del Nord che si era distaccato da Giuda alla morte di Salomone nel 933 a.C. Gli storici collocano la predicazione di Amos tra il 760 e il 750 a.C., un periodo particolarmente florido per la vita d’Israele: dopo un lungo periodo di decadenza nel Regno del Nord si assisteva finalmente a un rinnovato benessere economico, propiziato dall’azione di re politicamente capaci come Acab, Ioas e Geroboamo II. Avveniva così che i traffici commerciali inauguravano nuove rotte, la popolazione aumentava, le risorse agricole e l’industria tessile fiorivano.

Tuttavia, ieri come oggi, spesso a un “boom economico” si accompagna una situazione sociale precaria, dove le ricchezze sono mal distribuite, pochi hanno molto mentre molti hanno poco o nulla; la giustizia è sempre e solo dalla parte del più forte, piegata ad personam secondo le esigenze del tiranno di turno; la morale degenera sopraffatta dall’orgoglio di chi si ritiene giusto solo perché potente. È questa la situazione che Amos trovò in Israele all’inizio della sua attività.

Image 019Dire - Ascoltare - Vedere: tre verbi per una denuncia

Il libro biblico può essere strutturato in tre blocchi sostanzialmente omogenei, dominati ciascuno da un verbo. I primi due capitoli sono caratterizzati dalla “formula del messaggero”: «Così dice JHWH». In essi troviamo sette invettive rivolte ai popoli che costituivano lo scacchiere politico prossimo della Palestina di allora: Aram; i Filistei di Gaza; Tiro in Fenicia; Edom; Ammon; Moab; Giuda; Israele. Il profeta non fa sconti a nessuno e a ciascun regno rinfaccia le nefandezze commesse: vengono così denunciate la violenza, la depredazione ai danni di nazioni alleate e la deportazione degli schiavi per la sete di denaro.

Nella seconda parte del libro, capitoli 3–6, l’attenzione si concentra sul solo Israele, reo di aver dimenticato la benevolenza del Signore che lo aveva liberato dalla schiavitù d’Egitto. Le accuse rivolte al Regno del Nord sono scandite cinque volte dal verbo «ascoltate». Per prima cosa viene denunciato lo scandalo del lusso nel quale la classe dirigente viveva, tra gozzoviglie e sontuosi palazzi, incurante dell’indigenza dei più: «Guai a quelli distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani… Bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano» (1.4.6). Costoro non solo si disinteressavano della sorte dei poveri, ma piegavano la giustizia per propri interessi personali approfittando della propria forza. «Ascoltate questa parola, o vacche di Basan, che siete sul monte di Samaria, che opprimete i deboli, schiacciate i poveri» (4,1), «voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese, voi che dite: “Quando sarà passato il novilunio perché si possa smerciare il frumento, diminuendo l’efa e aumentando il siclo e usando bilance false, per comprare con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali?”» (8,4-5).

Tali colpe sono rese ancor più gravi perché mascherate da una religiosità sincera solo in apparenza, ma vuota e formale nella realtà. I due santuari di Betel e Gàlgala erano in piena attività e agli Israeliti questo era sufficiente per anestetizzare le proprie coscienze che gridavano per le ingiustizie perpetrate. «Andate pure a Betel e peccate, a Gàlgala e peccate ancora di più! Offrite ogni mattina i vostri sacrifici e ogni tre giorni le vostre decime… perché così vi piace fare, o figli d’Israele» (4,4-5). Questo atteggiamento ritualistico ed esteriore generava anche l’illusione che nulla sarebbe potuto succedere ad Israele, dato che Dio è con loro «essi che dicevano: “Non si avvicinerà, non giungerà fino a noi la sventura”» (9,10).

La parola di Amos denuncia questa sicumera proclamando senza mezzi termini che il Signore è schifato dal vuoto culto dei santuari: «Io detesto, respingo le vostre feste solenni e non gradisco le vostre riunioni sacre; anche se voi mi offrite olocausti, io non gradisco le vostre offerte, e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo. Lontano da me il frastuono dei vostri canti: il suono delle vostre arpe non posso sentirlo!» (5,21-23). L’unica possibilità di redenzione per il popolo è tornare al Signore sulla via della giustizia; in caso contrario il “giorno del Signore”, il suo castigo, non tarderà: «non cercate Betel, non andate a Gàlgala, perché Gàlgala andrà certo in esilio e Betel sarà ridotta al nulla… Odiate il male e amate il bene e ristabilite nei tribunali il diritto; forse il Signore, Dio degli eserciti, avrà pietà del resto di Giuseppe» (5,5.15).

Image 028La terza e ultima parte del libro, i capitoli 7–9, è caratterizzata dalla locuzione «ecco ciò che mi fece vedere il Signore» e contiene cinque visioni. Secondo alcuni autori occorre partire da qui per rintracciare l’esperienza biografica del profeta. In essa troviamo anche l’esito della predicazione di Amos; com’è facilmente immaginabile, il profeta ottenne un netto rifiuto dall’establishment cultuale, rappresentato da Amasia, sacerdote di Betel, che rispedisce Amos al mittente: «Vattene, veggente, ritirati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno» (7,13). La replica di Amos è uno di quei brani che più restano impressi nella memoria del lettore; essa tradisce il dramma personale di chi non per propria volontà si sente chiamato a un compito arduo e avversato: «Amos rispose ad Amasia e disse: “Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro. Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele”» (7,14-15).

Il libro non dice nulla della fine di Amos; la storia gli ha comunque dato ragione, visto che dopo pochi anni Samaria cadde per mano degli Assisi nel 722 a.C. Ma la finale del libro si apre comunque alla speranza di una restaurazione futura nella quale il lutto della devastazione cederà il passo alla restaurazione della «capanna di Davide» (9,11-15). In quel tempo si avvererà anche la profezia riportata poco prima: «Ecco, verranno giorni - oracolo del Signore Dio - in cui manderò la fame nel paese; non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare le parole del Signore» (8,11). Sarà proprio a queste parole che Gesù s’ispirerà per ribattere al diavolo durante le tentazioni nel deserto (cf. Mt 5,6).

Epilogo

Rileggere oggi il libro di Amos lascia un po’ interdetti: viene da chiedersi se siamo di fronte alla pagina di un testo vecchio di 2500 anni, o non piuttosto a quella di un quotidiano appena giunto in edicola. In effetti la nostra situazione non è molto dissimile da quella di Amos: viviamo sopraffatti da una crisi economica che ha la sua origine in una finanza moralmente marcia; ci sentiamo avvinghiati da una classe politica decadente che nel sentire comune si presenta come una “casta” volgare ed arrogante, disinteressata ai reali problemi di giovani, esodati e pensionati; percepiamo ovunque la paura dell’incertezza del futuro. L’attualità del libro di Amos è dunque lampante e non possiamo non sentire come nostre le sue denunce, il suo rigore morale e la sua passione per la giustizia che ci ricordano che il benessere economico non può essere conquistato ad ogni costo.

E questa è forse la maggiore lezione che Amos ci lascia, valida per i potenti di oggi come per lo studente assonnato del lunedì mattina in biblioteca: non sono i parametri economici, pur importanti, a indicare lo stato di salute di un popolo, ma è la sua capacità di «far scorrere il diritto e la giustizia», perché non di solo spread vive l’uomo.