Il teatro come scuola di comunità e di vita. Sul palco non si parla di fede, si cerca di viverla, la fede. Alla ricerca di storie di evangelizzazione lungo la via Emilia, con la consapevolezza crescente che tutto è annuncio della bella notizia, oppure niente lo è, mi sono imbattuta in Nicoletta Mazzoni. Per anni, tra le altre attività teatrali, ha tenuto laboratori di drammatizzazione presso la parrocchia dei cappuccini di Faenza, dove ora svolge il servizio di catechista; attualmente, oltre all’attività di regista alla Filodrammatica Berton, tiene i laboratori nelle scuole medie a Sant’Umiltà di Faenza.

Lucia Lafratta

Image 212Esperienza di vita-teatro

Conversazione con Nicoletta Mazzoni, animatrice di laboratori teatrali

Sono stata bocciata all’esame di catechismo, il mio parroco era, diciamo così, esigente: mi inceppai nel recitare l’atto di dolore e così non feci la prima comunione con le mie compagne, con le quali ero stata negli anni del catechismo, ma l’anno dopo. Fortunatamente (sono sempre stata una persona molto fortunata!) i miei genitori e la mia catechista furono talmente bravi da far passare la cosa molto tranquillamente.

In parrocchia, però, hai deciso di rimanere: c’è da stupirsi che tu non l’abbia presa male.

Sì, ci sono rimasta anche dopo comunione e cresima, quando i ragazzi, di solito, se la danno a gambe. Anzi, raggiunta l’età giusta, avrei voluto impegnarmi come educatrice. Ma il mio parroco mi disse che, al massimo, se proprio volevo fare qualcosa, potevo suonare la chitarra.

Forse risale a queste esperienze il tuo impegno ormai ventennale con bambini e adolescenti…

Mah, forse sì. Io so, perché l’ho provato sulla mia pelle, che dire a un ragazzino, con le parole, con i gesti, con le scelte che lo coinvolgono, che non è adatto, che non gliela può fare, che è meglio che cambi strada dandogli un percorso preconfezionato non porta da nessuna parte, conduce proprio a un binario morto. Se a un quindicenne dici: “Non sai far nulla”, è come lanciargli un’incudine in mezzo alla fronte, anche se lui fa finta di niente.

Sono figlia di un regista e da quando avevo quattro anni respiro la polvere delle tavole del palcoscenico. A diciotto anni - e tieni conto che ero una ragazzina molto vivace - mio padre, di punto in bianco, mi dice che non può tenere fede ad un impegno in un paesino della bassa Romagna, Solarolo: “Allora mi sostituisci tu”. È cominciata così la mia carriera di “regista-educatrice”. Pian piano ho capito che forse gliela potevo fare, che avevo la capacità di entrare in empatia con le persone, in particolare con i ragazzi. E questo mi piaceva. È stato un cammino lento, progressivo, con alti e bassi, come sempre nella vita.

È stato fra Carletto (fra Carlo Muratori, per alcuni anni nel convento dei Cappuccini di Faenza come educatore e ora a Bologna come archivista provinciale), una figura importantissima nel mio percorso di formazione, a darmi consapevolezza dei miei mezzi di comunicazione. Di fronte alle mie resistenze e ai miei dubbi, mi spronava dicendomi che avevo ricevuto in dono queste capacità, un carisma e che dovevo usarlo per e con gli altri. Sì, sono proprio stata fortunata nella vita: la mia meravigliosa famiglia, il mio compagno che mi vuole bene da quindici anni, mio figlio Mattia e il prossimo che nascerà in maggio, tutte le persone che ho incontrato e incontro sul mio cammino mi hanno fatto capire e mi fanno capire ogni giorno chi sono, chi posso essere. Ora credo di sapere che il teatro è un mezzo davvero potente per conoscere e aiutare le persone. Mi riferisco soprattutto agli adolescenti. Lo studio del teatro e in particolare del personaggio aiuta l’introspezione, lo scandaglio e la conoscenza della loro parte più vera e nascosta.

Sono molto fortunata, perché ho incontrato tante persone che hanno risposto alla domanda che ogni adolescente ha dentro, e che magari manifesta in modi sbagliati o che noi riteniamo tali: ma tu credi in me?

Image 215Non dev’essere stato facile far accettare il teatro come esperienza educativa.

Ho scoperto presto (ma a tutti è capitato e capita così) che non sono le parole dette e ripetute come una lezione imparata a memoria che ci cambiano la vita. Se dico che Dio ama tutti, che Cristo è morto per noi, perché tutti fossimo salvi e non avessimo più paura e però resto dentro la mia corazza, nulla cambia. Dico solo belle parole che lasciano il tempo che trovano e magari possono ottenere l’effetto opposto.

Se riesco a scoprire cosa voglio veramente, al di là dei “falsi” desideri uguali per tutti, se riesco a capire che ciò che davvero desidero non è di ubriacarmi al sabato sera, se riesco a fare autentica esperienza di comunità, come il gruppo teatrale permette di fare, ecco che intuisco cosa dà senso alla vita, ciò per cui vale la pena di dare la pelle, di impegnarsi. Quando lavoro con i ragazzi, quando metto in scena uno spettacolo e ognuno si sente unico e irripetibile, amato, se sente che quella parte è proprio per lui e vi si trova bene, ecco, per me, questa è l’incarnazione.

Image 219Cos’ha di diverso l’esperienza del teatro per un adolescente?

Il teatro permette di mettere in mostra le proprie emozioni, di parlare con se stessi, ascoltarsi, di vedere quello che non si vuole vedere, perché in ciascuno non c’è solo il bene, c’è anche il male, di scoprire i propri limiti e accettarli come un punto di partenza perché diventino forza. È un lungo lavoro di ascolto, soprattutto; quando sul palco chiedi a un ragazzino di amare, di odiare, di essere felice o triste, e magari gli dai solo una battuta, devi essere capace di spiegare perché, devi essere capace di ascoltare, devi restare sempre in dialogo. Ecco, la parola che meglio dice cosa per me è il teatro con i ragazzi è proprio questa: ascolto. Loro te li lanciano i messaggi, magari a modo loro… a noi il compito di ascoltare e decifrare la comunicazione. E ascoltando loro, si impara ad ascoltare se stessi.

Ti racconto la storia di un ragazzino, che chiamo Giovanni, tanto per dargli un nome (già le luccicano gli occhi quando lo nomina). Ragazzino difficile, come si suol dire, va male a scuola, in classe fa casino, fuori riga le auto e dà fuoco ai cespugli. A scuola fa laboratorio teatrale con me, e a teatro si sente libero. Abbiamo in programma di mettere in scena Pinocchio. Viene il momento di decidere a chi assegnare le parti, chi farà cosa, e mi presento dal gruppo delle insegnanti con la mia proposta. Per me Giovanni sarà Mastro Geppetto. Perché è pronto per il salto, per la parte importante, perché è capace, perché, nel suo complicato percorso personale, è il momento della fiducia, del riconoscimento che gliela può fare. A essere Geppetto, a non fare danni, a studiare. E invece no. Per le insegnanti no, non se lo merita, no, niente protagonista, sarà solo un personaggio di secondo piano; vengo addirittura convocata dalla preside. Geppetto sarà il migliore, il più bravo e il più buono, che non ha alcun bisogno, e persino alcun interesse, di essere protagonista perché lo è già. Mi vengono le lacrime agli occhi. Quando vado dai ragazzi e distribuisco le parti, lo guardo e dico “terzo popolano”, Giovanni non mi manda a quel paese, quasi mi consola: “Tanto lo sapevo…”. Fino alla fine dell’anno non mi ha dato alcun problema, e questa è stata la lezione più grande. Sono passati quindici anni e ancora ci sto male; è stato allora che ho deciso che nessuno più mi avrebbe detto a chi assegnare le parti; allora ero molto giovane e ho deciso che in quella scuola non ci sarei più andata. Nell’esperienza teatrale, nella preparazione dello spettacolo, si sviluppa quel processo di comunità che è fondamentale; per questo a volte ho degli scontri epocali coi miei colleghi: se non dai rispetto, come puoi pretenderlo?