Gli altri come me stesso
L’opera dello Spirito fa risaltare la nostra identità riconoscendoci in relazione ad altri
di Giovanni Motta
docente di filosofia allo Studio Teologico “Sant’Antonio” di Bologna
Con noi per profetizzare insieme
«Allora Giosuè, figlio di Nun, che dalla sua giovinezza era al servizio di Mosè, disse: “Mosè, signor mio, impediscili!”. Ma Mosè gli rispose: “Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito!”» (Nm 11,28-29).
I tre episodi riportati possono bastare. Anche la loro cronologia è preziosa. L’Antico Testamento, la parola di Cristo, il tempo della Chiesa parlano con la stessa voce pur nelle diverse situazioni storiche. «Il vento soffia dove vuole» (Gv 3,8). La volontà del Padre non può essere limitata dalla misura umana.
«Extra ecclesiam nulla salus», recita un adagio teologico. Esso è certamente giusto. Tutto sta a vedere che cosa si deve intendere per “Chiesa”. Possiamo limitare
Il metodo dell’amore
San Bonaventura afferma che
In questo stato lo Spirito scende, come sui pagani di cui parla Pietro negli Atti degli apostoli, che sono animati dalla sincerità della ricerca. Ma ricerca di che cosa? Non si tratta certo di un esercizio speculativo. Il metro su cui l’uomo è valutato non è certamente quello della sua conoscenza. «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,35-36). Il vangelo pone chiaramente in evidenza che la ricerca del Regno di Dio si compie solamente in un atto di amore, e che nell’amore per il prossimo si realizza l’amore di Dio.
Questa realizzazione è proprio l’autentica realizzazione dell’uomo. Il filosofo ebreo Emanuel Lévinas sostiene che il vero modo di intendere il comandamento «Ama il prossimo tuo come te stesso» è “ama il prossimo tuo, egli è te stesso”. Il senso è chiaro: il rapporto con l’altro non è un’appendice al nostro essere, ma ne è parte integrante. A loro modo Maurice Brondel, Martin Heidegger e molti altri hanno sostenuto la stessa cosa. Il mondo moderno, che prende le mosse dal cartesiano «Cogito ergo sum», ha dimenticato questa realtà fondamentale e ha così perso se stesso. Oggi regnano spesso l’individualismo e il solipsismo. Li troviamo in quella realtà che, forte dello spirito illuminista, inneggia alla libertà, come territorio del solo uomo, contrapponendo l’atto perfettamente libero dell’uomo individuale alla libertà vincolata dell’uomo-cittadino.
Essere solo con gli altri
«La mia libertà finisce là dove comincia quella degli altri», dice un famoso adagio. L’altro viene pertanto visto come un negatore, un limite della mia libertà. Voltaire sosteneva che, pur essendo totalmente contrario alle opinioni dell’altro, avrebbe fatto di tutto perché le potesse professare, e pensava in questo modo di affermare la libertà dell’altro, il suo essere come uomo. No! All’uomo che tende alla Chiesa interessa l’altro perché fa parte di lui, perché è con lui ed è lui. Non è senza l’altro. Le sue opinioni, i suoi atti, i suoi sentimenti, il suo pensiero lo influenzano profondamente. Egli sa che senza l’altro non sarebbe se stesso, che il suo rapportarsi all’altro non nasce da un io già formato, che decide, in un certo determinato tempo, di andare incontro all’altro, magari anche mediante atti di filantropia. Il rapporto con l’altro lo costituisce invece come se stesso e perciò lo rende libero.
Anche se ognuno di noi è solo se stesso e non si perde mai nell’altro, come in un mare che lo sommerge, è extrema solitudo, come diceva Giovanni Duns Scoto, egli vive del rapporto con l’altro, la “solitudine” è in questo caso singolarità, che sa di essere se stessa nella ricerca dell’altro.
«Essere solo, con gli altri», diceva Kierkegaard, superando in questo modo sia l’individualismo che persegue l’io senza l’altro, sia il collettivismo che persegue l’io gettandolo nell’altro (essere solo con gli altri).
Mi pare che proprio questo rapporto con l’altro che fonda lo stesso io e che è sentito come esigenza dell’io per essere se stesso possa essere considerato come scintilla dell’amore divino, anche presso coloro che, non sapendo chi è Dio e che egli è Amore, si ritengono lontani da una concezione di Dio che a loro risulta vuota. Forse invece proprio questo modo di essere con l’altro, che realizza la singolarità, può essere considerato vera immagine della Trinità, in cui le persone risultano affermate in se stesse nella loro unione amativa.