Dove lo Spirito si rende visibile
La presenza dei frères di Taizé al Concilio fu un segno dell’urgenza del vangelo
di Silvia Scatena
ricercatrice all’Università di Modena-Reggio Emilia e presso
Una cosa bellissima
«Andai con Don Dossetti e Arnaldo a cenare dai Frères di Taizé [...]. Fu una cosa bellissima; una delle più belle di questo periodo. Mi persuasi che veramente lo Spirito Santo sta operando nel mondo - nella Chiesa e fuori - per riunire in unità tutti i credenti in Cristo. A Roma sono in quattro [...] sono qui come Osservatori. “Non potendo - sono le parole del Priore Schutz - stare insieme coi cattolici alla stessa tavola eucaristica, abbiamo voluto stare insieme ogni giorno all’agape fraterna”». Così scriveva da Roma il card. Lercaro al gruppo di giovani studenti universitari che a Bologna vivevano con lui in arcivescovado il 6 dicembre 1962 alla vigilia della chiusura del primo periodo del Concilio che, nelle intenzioni del Papa che l’aveva convocato, non doveva essere soltanto un’assise di ricerca e di discussione finalizzata all’elaborazione di nuovi e importanti documenti, ma soprattutto una “nuova Pentecoste”, un’assemblea veramente condotta dallo Spirito di Gesù, quasi la celebrazione di una grande liturgia dello Spirito.
Immediatamente a ridosso del cinquantesimo anniversario dell’apertura del Vaticano II mi piace allora fare memoria, fra i tanti “luoghi” e “momenti” in cui
La piccola Taizé
Invitati a Roma in qualità di “ospiti” - categoria introdotta dal Segretariato per mantenere i legami con alcune esperienze ecumeniche “di frontiera” senza inficiare la nuova opzione per l’apertura di relazioni ufficiali con le chiese non cattoliche -, anche due fratelli della comunità di Taizé, Roger Schutz e Max Thurian, assistettero a tutti i lavori conciliari assieme agli altri rappresentanti delle chiese non cattoliche - 54 nel primo periodo del Vaticano II - dalla tribuna speciale allestita per loro in San Pietro; un’esperienza decisiva per la comunità ecumenica francese, ammessa per la prima volta «al cuore dell’intimità della famiglia cattolica», e in particolare per il suo priore, in cui l’inizio del Concilio alimentò la percezione di un’urgenza dell’unità in quell’ora della storia e con essa la volontà di fare sempre più della vocazione monastica «l’offerta della mia vita per l’unità visibile dei cristiani». Da qui la decisione di fare del piccolo appartamento comunitario vicino a Piazza Venezia un luogo di accoglienza e di intercessione permanente per l’unità.
Quella della semplicità e dello stile dell’accoglienza nella «piccola Taizé di Roma» è così, come si rievocava all’inizio con la citazione della lettera di Lercaro, l’esperienza comune e unanimemente restituita da quanti - osservatori, vescovi e teologi -, invitati a pranzo o a cena dalla comunità, si succedettero quotidianamente nell’appartamento di via del Plebiscito, talora al loro primo, concreto incontro, come nel caso di molti vescovi italiani o spagnoli, con dei “fratelli separati”. Luogo di moltiplicazione di contatti e di legami di solidarietà che non tarderanno a modificare la geografia su cui la comunità di Taizé si sarebbe mossa nei decenni successivi, di irradiazione di «uno spirito di ecumenismo» che per molti si impone con la forza di una scoperta capace di alimentare la fiducia nell’azione dello Spirito, «nella Chiesa e fuori, per riunire in unità tutti i credenti in Cristo», l’appartamento comunitario consente, da un lato, ai fratelli di Taizé di «capire e ascoltare le preoccupazioni diverse e di accoglierle per la nostra meditazione personale sull’ecumenismo», dall’altro, agli ospiti, di conoscere in modo ravvicinato il binomio qualificante della vocazione ecumenica della comunità: quello di una preghiera «per compiere assieme la vocazione essenziale di stare davanti a Dio perché venga l’unità di tutti in una sola Chiesa» e di un’accoglienza che manifesta il valore dei gesti nella trasformazione delle mentalità.
Vitalità nuova
Per quello che promettono e per le nuove latitudini che dischiudono, la molteplicità e la densità dei contatti stretti nei primi due mesi del Vaticano II stanno dunque al cuore dell’esperienza conciliare di fra Roger e, con lui, della sua comunità, che attraverso il suo filtro scopre una Chiesa che recupera in modo palpabile un’inedita dimensione di cattolicità, una Chiesa che cambia e conosce in due mesi una trasformazione di mentalità fino allora impensabile. Una Chiesa, ancora, capace di dialogo, dagli aspetti multiformi, presto attraversata da opposizioni che costringono alla ricerca di equilibri non facili fra le ragioni della carità e l’esigenza di «restare fermi» quando si avvertiva che la posta in gioco era l’avvenire del cristianesimo: una posta in gioco, questa, che per il fondatore di Taizé doveva quindi dilatare le dimensioni dell’ecumenismo fra battezzati, restituendoli «al senso dell’universale» e riportandoli «all’essenziale».
È soprattutto dalla prospettiva di questa posta in gioco - urgenza della trasmissione del vangelo nel mondo contemporaneo e unità dei cristiani che ne è condizione di credibilità - che viene allora seguito l’andamento di un confronto assembleare che si rivela in prima istanza per Roger Schutz uno straordinario esercizio collettivo di comprensione di chi era agli antipodi del proprio pensiero e delle ragioni che ne animavano la vita profonda, un esercizio che universalizzava i cuori e le intelligenze, liberando delle forze vitali fino allora neutralizzate dal conformismo alle istituzioni e promettendo una vitalità nuova della Chiesa cattolica.