Interazioni di una cellula-piccola Chiesa

L’amore vissuto, sognato, imparato all’interno di una famiglia

a cura della famiglia Moschini
di Vicenza

Image 081Un altro articolo sul difficile mestiere di genitore… non dimenticando che ogni genitore è quasi sempre contemporaneamente figlio, anche se un altro figlio e in relazione con un altro genitore, diverso dal figlio che si ha e dal genitore che si è… tenendo ferma la particolare contestualizzazione che rappresentano il libro di Osea, l’amicizia con padre Dino e il contenitore di MC.

Perché scriverlo? Come scriverlo? Con chi scriverlo? Alla fine abbiamo deciso di scriverlo come famiglia, ognuno libero di esprimere quello che voleva senza un confronto tra noi anche se inevitabilmente se ne è parlato. E così “l’intera tribù” ha dato... ed ecco il risultato.

Alberto (padre)

Due riferimenti da cantautori a me cari si sono sovrapposti al passo di Osea e pensandoci un po’ su e mi hanno indirizzato ad esplicitare l’idea di come provo a vivere questo amore fatto di sentimento, di gesti, di entusiasmi, di incomprensioni, di errori, di complicazioni e di un concetto profondo e impegnativo frutto della mia educazione e della mia vita, ormai chiaro ma forse mai interamente vissuto.

Il sentimento, i gesti e gli entusiasmi: «Come una madre che saluta i propri figli accompagnando i saluti con i baci sulle guance e le parole più care e dolci, come le carezze di un padre che essendo così rare scavano nell’anima e nel cuore lasciando un solco più profondo, […] come tutto questo, amore mio, per te sarò» (Ivan Graziani, Come in Ballata per quattro stagioni, 1976).

Image 085Le incomprensioni, gli errori e le complicazioni: «Chi ti ha messo questo freddo nel cuore? Una madre col suo poco amore. Chi l’ha mantenuto questo freddo in cuore? Una madre col suo troppo amore» (Roberto Vecchioni, Figlio, figlio, figlio in Il lanciatore di coltelli, 2002) [ riferito al delitto di Erika e Omar a Novi Ligure, n.d.a.].

Il concetto profondo e impegnativo frutto della mia educazione e della mia vita. Penso che un figlio vada amato e basta e che siano i giorni e le età vissuti in questa relazione a dettarne la qualità. La difficoltà sta nel capire. All’inizio è un amore-assieme in cui ho dovuto imparare a prendermi cura di lui, di ogni sua necessità. La difficoltà sta nell’imparare, con Cristina, tutte le “necessità”. Poi, quando il figlio ha cominciato a “fare da sé”, è diventato amore-attesa col solo compito di esserci per ogni sua necessità esplicitata e anche non detta, ma senza la pretesa di esserci. La difficoltà sta nel capire come non coltivare la “pretesa”. Adesso spero diventi amore insieme; mi auguro di avere “amato bene” per poter amare insieme ai miei figli la loro vita quando sarà prevalentemente la loro. La difficoltà sta forse nel comprendere che si è insieme anche vedendosi poco anche sentendosi poco… basterà probabilmente ascoltarsi quanto basta.

Cristina (madre)

La prima risposta, senza riflettere, che molte mamme come me darebbero alla domanda su come pensano di amare ed educare i loro figli, sarebbe: «nel modo giusto», né poco, né troppo, né male; sempre, per ogni figlio, in modo uguale, senza fare preferenze. Ma sono proprio queste domande che dovrebbero aiutarci a riflettere e a metterci in gioco, per superare nei modi migliori e nel più breve tempo possibile i conflitti che si creano nelle famiglie tra genitori e figli, piccoli, adolescenti, adulti.

Noi genitori abbiamo certamente una responsabilità maggiore verso i figli e solo perché abbiamo scelto di farli nascere. Dimentichiamo però molto spesso (soprattutto noi mamme) che loro non sono una nostra appendice, un modellino di cera che possiamo plasmare a nostro piacimento. Cerchiamo sempre il loro bene, misurandolo con i nostri parametri di genitori e ricordando troppo poco la nostra passata situazione di figli.

Credo che noi mamme amiamo “troppo” i nostri figli quando ci sostituiamo a loro nelle responsabilità che la vita riserva; siamo protettive perché in qualche modo li sentiamo sempre parte di noi e faticosamente ci separiamo da loro, interrompendo quel legame che fisicamente non c’è più dal momento della loro nascita.

Li amiamo “male” quando non diamo loro la fiducia che meritano; siamo molte volte gelose che diventino adulti ed educatori migliori di noi, senza capire che la libertà che chiedono forse è proprio questa: mettere a frutto quello che hanno ricevuto da noi e dal mondo, ma in maniera innovativa e a volte incomprensibile al nostro modo di essere madri. Li amiamo “poco” quando non riusciamo a cogliere l’attimo in cui loro ci chiedono il confronto, la sfida per misurare le nostre certezze e le nostre debolezze. Ci colgono molte volte impreparate e riescono ad eguagliare la posizione genitori-figli quando modificano le situazioni a loro vantaggio, riuscendo ad ottenere i massimi risultati con il minimo sforzo.

Image 090Anna (figlia primogenita)

Formula del rapporto figlio-padre: come creare il nostro miscuglio di amore-odio. Il sentimento di amore del figlio è composto da un forte senso di gratitudine, per il dono più grande che gli hanno fatto, quello della vita. È composto da stima nei confronti di qualcuno che ha avuto il coraggio di dare alla luce un essere umano; qualcuno che ha avuto il coraggio di accompagnarci e sopportarci fino ad ora; qualcuno che prendiamo come esempio, che ci può insegnare, che ci è “guida” ma anche elemento di confronto talvolta in positivo e talvolta in negativo. Stima per qualcuno che un giorno potremmo “rischiare” di essere. Un sentimento, la stima, che può arrivare ad essere ammirazione. È composto da affetto, quello di quando torniamo piccoli per ricevere le coccole prima di andare a letto o essere riempiti di abbracci quando li vediamo dopo giorni di viaggio; da tenerezza, quella di quando li vediamo per quello che sono, essere umani senza i super poteri; da compassione, quando sentiamo quel bisogno di unirci ai loro sentimenti come segno d’affetto e gratitudine e come arricchimento personale; da orgoglio perché in fondo sono i migliori genitori che ci potevano capitare.

Dall’altro estremo decostruiamo le cause del sentimento negativo del nostro composto. Un sentimento di odio in quanto portandoci al mondo hanno sostanzialmente soddisfatto un loro bisogno primordiale ed egoista, realizzarsi come esseri umani. Odio perché vogliono plasmarci a loro piacere, perché non ci lasciano camminare con le nostre gambe ed hanno paura di darci fiducia; odio perché ci sentiamo controllati. Odio perché sentiamo la pressione delle loro alte e precise aspettative nei nostri confronti. Odio perché spesso non capiscono il nostro amore e il nostro odio. Un odio accompagnato da gelosia nei confronti della madre (o padre) per l’amore che riceve dall’altro genitore che è la proiezione dell’ideale di amante che ha costruito il figlio (traducetelo se volete come complesso di Edipo). Invidia perché possono o hanno potuto quello che non possiamo o non abbiamo ancora potuto. Pietà, rammarico e tristezza per due persone che in fondo hanno molte debolezze e piccolezze. Paura di deluderli. Infine odio e amore, amore e odio per un legame di dipendenza reciproca che non vorremmo ma vorremmo, in fondo, per sempre avere.

Matteo (figlio secondogenito)

A ventiquattro anni mi piace pensare che un buon rapporto genitori-figli possa e debba puntare alla costruzione di individui dotati di autonomia e personalità.

Non credo, non credo più, si debba misurare la bontà di un padre in base a quanto il figlio è beneducato, quanto piuttosto a quanto è in grado di farsi educare, di imparare a decidere da sé cos’è opportuno e non opportuno fare. Non credo che il valore di una madre stia nella capacità di un figlio di camminare con le proprie gambe, né che debba sentirsi necessaria o - peggio - importante se non è in grado di farlo; si tratta piuttosto di insegnare a un figlio a camminare insieme a lei, e a saper decidere quando prenderla o farsi prendere per mano, quando sostenerla o quando invece farsi prendere in braccio.

Ora che mi capita di pensare veramente, di tanto in tanto, a cosa significherebbe essere padre, la cosa che più mi spaventa è il non riuscire a capire in quali momenti e in che misura un genitore debba essere presente per il figlio. Adesso che sono “grande” mi chiedo cosa voglia dire essere grandi, mi chiedo quando questa cosa sia cominciata, mi accorgo che la mia indipendenza dipende dai miei genitori.

È una questione di assenze e presenze. Nessun giovane adolescente vuole dei genitori asfissianti, come nessuno vorrebbe ritrovarsi abbandonato, non amato da loro. Non si tratta allora di esserci o non esserci per responsabilità, obbligo morale o senso del dovere, si tratta di imparare e insegnare a esserci e non esserci in funzione di una cosa molto più personale e al tempo stesso costruttiva, si tratterebbe piuttosto di esserci e non esserci in funzione della costruzione del proprio essere persone.

Benedetta (figlia terzogenita)

Babbo e mamma amano “a giornate”: a volte amano troppo, a volte troppo poco, male o bene o il giusto, a volte amano ma noi non ce ne accorgiamo, a volte fanno i severi per dimostrarci il loro amore, altre cedono alle richieste insistenti di noi figli. Quello che non potremo mai sapere è quando, il preciso istante, in cui i genitori ci ameranno in quella giornata.