Sublime energia vitale

Dove Agape ed Eros si incontrano per procedere verso Dio

di Gilberto Borghi
della Redazione di MC

Image 065Carne da macello

Quando in classe mi capita di parlare di sessualità, tra i miei ragazzi campeggia una idea, legata alla loro esperienza o al loro immaginario: il piacere. E siccome sono i nostri figli, spesso sono lo specchio di ciò che noi stessi siamo e di ciò che è, e forse sarà, la società.

Per questi ragazzi, e quindi per moltissimi adulti, la questione centrale della sessualità è il piacere, neanche più l’amore e nemmeno lontanamente la procreazione. E soprattutto il fatto che il piacere possa essere vissuto senza legame con l’amore. Perciò è evidente la distanza abissale tra loro e la Chiesa, che parla solo di amore e procreazione e dove il silenzio sul positivo del piacere sessuale è invece assordante. E così il piacere è abbandonato in pasto all’industria post-moderna della mercificazione e i miei ragazzi sono carne da macello per questo mercato. Come mai questo nostro silenzio? Forse perché il piacere è talmente naturale che si può dare per scontato. O peggio, come se fosse qualcosa di intralcio all’amore e alla fede, o addirittura di peccaminoso in se stesso.

In ogni caso, se non recuperiamo la bellezza del piacere come parte essenziale dell’amore cristiano, la Parola di Dio sul sesso non è più comprensibile oggi. Troppo poco si valorizzano il piacere e la bellezza come energia vitale a disposizione dell’uomo per amare l’altro, come Dio ci chiede. Poco si indaga su questo vissuto per assaporarlo come dono divino di cui ringraziare. Per nulla si prova a mostrare come l’amore spirituale che viene dall’alto per grazia di Dio (agape) e l’amore naturale che viene dal basso attraverso il piacere (eros) non sono in contraddizione.

Image 072La liturgia del corpo

Sul piano teologico e pastorale invece, si pensa spesso ad una loro radicale opposizione. E ciò forse spiega l’assenza di parole positive sul piacere sessuale. La Chiesa ha accettato sempre il corpo che soffre, ma ha spesso visto con difficoltà il corpo che gode. Ci manca una teologia dell’erotismo. Che invece, nella tradizione cristiana, è stata avvicinata da molti grandi padri e teologi: da Gregorio di Nissa a Giovanni Paolo II. Questi e molti altri hanno riconosciuto che la relazione corporea di amore parla di Dio. Il piacere sessuale è una esperienza di perdita di possesso di sé e di fusione con l’altro, tanto da farci sentire parte di un Mistero più grande di noi, e a cui ci affidiamo. “Il piacere mima l’estasi”, perché nel piacere non si è più padroni di sé, e si vive la consegna nelle mani dell’altro, che può allora essere il sacramento di Dio per noi.

Giovanni Paolo II indicava nella sessualità la liturgia del corpo. Perciò potremmo dire che l’atto eucaristico supremo di Gesù si esprime con la stessa frase che un marito e una moglie vivono nell’atto d’amore: “Questo è il mio corpo dato per te”. E per rovescio, allora, la liturgia è la sessualità della Chiesa. E in ciò si vede il loro valore ludico “alto”: vissute per gratuità, per il piacere di farle e non per ottenere qualcosa attraverso di esse. E perciò fonte e culmine della vita. Infatti il piacere che scaturisce dal sesso è concomitante con la possibilità dell’origine della nuova vita e, a sua volta, l’atto salvifico di Gesù è la fonte della gioia pasquale e rende possibile l’inizio della nuova vita in Cristo. “Con la comunione l’essere umano è cristificato fin nel proprio sesso” (Simeone il Nuovo Teologo).

Questo permanere di Dio nel piacere, fa sì che la sua percezione, anche nel peccato, non venga meno. E allora diventa necessario recuperarne la pienezza, quando col peccato la sua direzione si è stravolta, andando verso il possesso dell’altro e non verso il dono di sé, fino a generare amori malati e distruttivi. E per fare ciò non serve tagliare via il piacere dal senso di fede della nostra vita. Serve invece custodire questa bellezza dentro la fede, e mostrarne il rapporto con l’amore.

J. Bastaire, teologo francese amico di De Lubac, mostra con chiarezza come questo cammino, quando al centro della mia persona c’è la presenza di Dio, il desiderio di possedere l’altro non afferra il mio centro, pur spingendomi potentemente verso di lui/lei. È Dio il signore della mia vita, non l’altro o me stesso. E per quanto io ami l’altro non posso mai renderlo Dio per me. Si tratta quindi di tenere in ordine il proprio io nel rapporto con l’altro, appoggiati sulla signoria di Dio. In questo modo la bellezza e il piacere dell’altro possono aprirci ad un autentico amore. E Bastaire tira in ballo la parola “castità”.

Parola che, però, oggi non è più in grado di veicolare questo significato, perché è stata sdrucita dall’uso riduttivo che se ne è fatto. La rinuncia al rapporto sessuale è solo la manifestazione ultima ed esterna di un processo interno molto più ampio. Se non torniamo a far luce su questo processo, la castità resterà quello che già è per l’uomo post-moderno: perfettamente insensata.

E allora bisogna recuperare un senso nuovo della castità. Essa non consuma energia, perché mantiene alla bellezza la sua vera e autentica direzione: il dono di sé. Non può perciò presentarsi all’anima come uno sforzo di volontà. Quando è vera produce energia, ci regala la forza di chi sa di essere libero dal dominio del desiderio, non perché non lo sente più, ma perché lo vive capace di riunificare la persona e spingerla al dono di sé. Offre senso di solidità interna perché l’io è in ordine; non sa di durezza e blocco in qualche parte di sé, ma di scioltezza.

Image 074Appoggiati su Dio

La castità procede dall’insediarsi della persona al centro di se stessa nella relazione con Dio, senza pretendere che tutto sia controllabile con la ragione. Anche il termine “dominio di sé” perciò è ambiguo, perché rimanda troppo al senso del potere che la volontà vorrebbe instaurare sull’istinto. Nulla di tutto ciò invece nella castità autentica.

In essa l’istinto è gestito da un equilibrio interno di forze, in cui l’armonia della percezione di sé fa da controllo istintivo sulle tentazioni della vita. E al centro di questa armonia sta proprio la relazione liberante con Dio, che fa da base per “tenere in ordine il proprio io” e nel contempo per lasciare che l’eros, che Lui ci ha donato, scorra sciolto verso l’agape. “Casto” è lo sguardo che sopporta la distanza dell’essere tra i due, e che non cerca di annullarla pur desiderandolo, perché sa che ciò gli sarà regalato da Dio. Sguardo “puro” cioè unitario, che vede il corpo unitario, cioè la persona. In questo senso il corpo nudo viene rivestito dall’amore. Adamo fa così con Eva. “Carne della mia carne...”. Io sono persona intera e vedo lei/lui persona intera, fatta della mia stessa pasta. E il desiderio che si posa su questo corpo non è quello di chi vuole afferralo per sé, ma quello di chi lo ammira e lo lascia essere così come è, per ringraziare chi lo ha fatto e me lo ha donato. Beati i puri di cuore perché vedranno Dio... anche nel corpo.

Rinunciare a volte al rapporto sessuale, non è quindi una autoimposizione razionale. Così fermerei l’eros e l’agape, non si vivrebbe più. E non è neppure una copertura per i problemi di coppia, sperando di sublimare in significato spirituale ciò che sul piano umano non funziona. E ancor meno, può essere una modalità per mantenere in piedi una relazione in cui la sessualità si è spenta, o non c’è mai stata, dove, rinunciando alla mia unità interna, annullerei una parte di me, o la vivrei altrove. In tutti questi casi non parliamo di castità, ma di castrazione.

Rinunciare a volte al rapporto sessuale esprime invece la verità del proprio amore, per non renderlo schiavo del desiderio. Serve a non “snervare” il sesso come se fosse l’unico linguaggio tra i due, a non svuotarlo di interesse, evitando di dover andare a rincorrere emozioni sempre più forti e sempre più strane. E soprattutto, oggi, serve a non caricarlo di significati sociali che ne nascondono la spontaneità e la bellezza: potere maschilista, seduttività femminista, misurazione emozionale - sensoriale dell’amore.

Quindi, più che una virtù da vivere puntualmente, è un cammino da percorrere lentamente. Appoggiati sul rapporto con Dio e non tanto sullo sforzo etico di “stare dentro” a delle regole.