Riavviare il discorso su Dio

Il catechismo come testimonianza che parte dalla famiglia

di Ivo Seghedoni
direttore dell’Ufficio Catechistico della diocesi di Modena-Nonantola

 

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Nella quasi totalità delle parrocchie italiane regge ancora, pur con evidenti segni di cedimento, il dispositivo di iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi che ordinariamente chiamiamo “catechismo”. Un percorso che dura circa sei anni nelle parrocchie del centro-nord del nostro Paese (dove l’iniziazione cristiana viene terminata con la celebrazione della Confermazione), più breve nel centro-sud, dove non di rado abbiamo a che fare con una “iniziazione interrotta”, dopo la celebrazione della prima partecipazione all’eucarestia.

Questo metodo era stato pensato con l’obiettivo di preparare i fanciulli ai sacramenti, attraverso una conoscenza essenziale dei contenuti della fede. Conoscenza necessaria perché si potesse essere consapevoli di quello che si riceveva. Infatti “andare a dottrina” a questo serviva: per conoscere ciò che è da credere (ma già lo si credeva, grazie alla trasmissione familiare), per conoscere ciò che è da vivere (i comandamenti), per conoscere ciò che si deve ricevere (i sacramenti). Il linguaggio che fino agli anni ’70 del secolo scorso ordinariamente si utilizzava (“andare a dottrina”, appunto) era del tutto coerente con l’obiettivo del processo di iniziazione cristiana che veniva attuato nelle parrocchie.

Dopo l’uscita del documento Il Rinnovamento della catechesi (1970) questo linguaggio è stato progressivamente abbandonato, a vantaggio di altri linguaggi. Si è iniziato a parlare di “catechesi per la vita cristiana” (e non della “dottrina cristiana”), di “educazione dalla fede”, mettendo in luce così un decisivo spostamento: dal semplice apprendimento di una dottrina (imparare a domande e risposte) all’educazione a vivere da cristiani, inserendosi in un’esperienza di fede. Dunque non l’eliminazione della dimensione dottrinale, ma un ampliamento decisivo dell’obiettivo.

Dopo gli entusiasmi di quegli anni, con gli anni ’80 e ’90 la crisi del dispositivo di iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi si è manifestata. Le analisi si sono moltiplicate: dall’accusa mossa ai testi della CEI di non essere adeguati, al puntare il dito alla formazione dei catechisti (e non di rado al loro “arruolamento” piuttosto improvvisato), alla progressiva presa di distanza da questo impegno dei parroci, sempre più gravati di altre incombenze pastorali.

Image 062La svolta

Una decisa svolta nella riflessione catechetica sulla crisi dell’impianto di iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi avviene con l’inizio degli anni 2000. In particolare nel seminario La prassi ordinaria di iniziazione cristiana: nodi problematici e ricerca di nuove vie, tenutosi a Roma al santuario del Divino Amore di Roma il 10-12 aprile 2002, mons. Francesco Lambiasi, allora responsabile per la Commissione episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi, affermò: «I vescovi, e con loro quanti sono direttamente impegnati nel compito difficile dell’iniziazione cristiana (catechisti, parroci, direttori degli UCD) sentono che non è più possibile continuare la prassi ordinaria di iniziazione cristiana nei termini con i quali è stata ereditata e continua ad essere applicata nella quasi totalità delle parrocchie italiane e più largamente nelle Chiese di tradizione cattolica … Il cammino di iniziazione cristiana, infatti, sta franando su molti punti … I mutamenti in atto stanno mettendo in profonda crisi il modello di iniziazione cristiana ricevuto dal passato e richiedono non tanto un “aggiustamento”, ma un profondo “ripensamento”».

Ed il ripensamento è iniziato. Nella consapevolezza che «si tratta di non dare più per scontato che i soggetti che si presentano per chiedere i sacramenti (i genitori e i loro figli) siano già cristiani», occorre «affrontare insieme (ai genitori) un cammino che risulti di prima evangelizzazione e di reale iniziazione alla fede e non soltanto di familiarizzazione alla fede o di istruzione riguardante la fede», sono ancora parole di mons. Lambiasi.

La fede, insomma, non la può trasmettere una “mini-scuola” che ogni parrocchia mette in piedi da ottobre a maggio. La fede viene trasmessa, da sempre, nell’ambito familiare, e poi, a seguire, quasi come conferma e supporto, nell’ambito parrocchiale. Anzi, come fa notare Armando Matteo, nel suo La prima generazione incredula, la fede non è mai stata “cosa di chiesa”, ma “cosa di casa”, perché trasmessa dalle nonne e dalle mamme, confermata poi dalle maestre e suggellata dall’insegnamento della dottrina in parrocchia. L’Italia e in generale l’Europa ha conosciuto una “trasmissione matri-lineare” della fede, cioè una trasmissione avvenuta attraverso le figure femminili, prima in casa, poi a scuola e infine parrocchia.

Ripartire dalla famiglia

Oggi questa trasmissione informale, familiare e poi scolastica non c’è più. Come può il nostro impianto di iniziazione cristiana parrocchiale assolvere il compito che veniva così efficacemente svolto da nonne, mamme e maestre? Non è chiedere un po’ troppo?

Ecco perché oggi, in molte parrocchie e da parte di diverse diocesi, ci si muove in una diversa direzione. E così in diverse realtà diocesane e in tante parrocchie si ridefinisce l’obiettivo del percorso di iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi.

Senza abbandonare la catechesi ai bambini, nei nuovi progetti, si punta al primo annuncio ai genitori, coinvolgendo la famiglia in modo determinante nel processo di iniziazione. La convinzione comune è che non sia vero che “attraverso i piccoli prendiamo anche i genitori”, ma che, piuttosto, si giunga ai piccoli attraverso i loro genitori, invitati a riscoprire una fede da cui hanno preso le distanze per molti motivi.

Una riproposta adulta della fede per loro significa riavviare quel “discorso su Dio” che deve ritornare in famiglia, se desideriamo che i nostri piccoli possano avere accesso al Dio narrato da Gesù per la testimonianza e l’esperienza delle figure per loro significative: il papà e la mamma. Essi, pur nella fragilità della loro vocazione educativa o addirittura nell’esperienza di esser famiglia imperfetta o lacerata, sono ancora i primi ed indispensabili testimoni e responsabili della fede dei loro bambini.