Vivrà per la sua fede
Il profeta Abacuc chiede l’intervento di Dio in favore dei giusti
di Giuseppe De Carlo
della Redazione di MC
Fino a quando?
«Fino a quando, Signore, implorerò aiuto / e non ascolti, / a te alzerò il grido: “Violenza!” / e non salvi? / Perché mi fai vedere l’iniquità / e resti spettatore dell’oppressione? / Ho davanti a me rapina e violenza / e ci sono liti e si muovono contese. / Non ha più forza la legge / né mai si afferma il diritto. / Il malvagio infatti raggira il giusto / e il diritto ne esce stravolto» (Ab 1,2-4).
Sono parole che sembrano descrivere molto bene l’atteggiamento angosciato di un credente dei nostri giorni di fronte alla situazione disastrosa che viviamo da una parte e dall’altra l’apparente silenzio di Dio che sembra restare «spettatore dell’oppressione». Invece sono il grido accorato verso il suo Dio di un profeta vissuto 600 anni prima di Cristo. Un profeta, tra l’altro, ben poco conosciuto anche dai cristiani che frequentano assiduamente la chiesa e che leggono
Questo profeta si chiamava Abacuc e per uno strano scherzo del destino i dizionari etimologici della lingua italiana lo pongono all’origine delle espressioni «vecchio come il cucco» e «vecchio bacucco» e così il nostro profeta è divenuto simbolo della demenza senile che può colpire negli ultimi anni di vita. Il tutto sembra derivare dalla statua in marmo bianco a grandezza naturale (195x54x38 cm) realizzata tra il 1423 e il 1435 da Donatello, proveniente dalle nicchie del terzo ordine del campanile di Giotto e oggi conservata nel Museo dell’Opera del Duomo di Firenze. Rappresentato come un vecchio con una lunga barba bianca, ricevette il nome popolare di Zuccone.
In realtà, Abacuc fu un profeta tutt’altro che zuccone e vecchio bacucco. Come il suo contemporaneo Geremia, inaugurò un nuovo modo di essere profeta, in quanto non si pose di fronte a Dio solo con un atteggiamento passivo, in attesa delle sue parole e dei suoi comandi. Prese invece l’iniziativa di instaurare un confronto dialettico con Dio. Come già indicano le parole riportate all’inizio, mentre lui e il popolo di Israele stanno vivendo una delle vicende più tragiche della loro storia - l’avanzata e la presa di possesso del paese da parte dei Babilonesi -, Dio sembra non curarsene. È allora il profeta che incalza Dio e lo provoca a dare spiegazione del suo atteggiamento apparentemente passivo.
Dio accetta la provocazione di Abacuc e risponde dicendo che i Babilonesi sono lo strumento di cui egli si serve per punire i popoli che opprimono Israele e per punire gli israeliti stessi che hanno peccato. In un primo momento il profeta accetta la risposta di Dio, ma nel frattempo continua a osservare l’andamento della situazione e si rende conto che i Babilonesi usano metodi così violenti e oppressivi che gli pare impossibile possano corrispondere ai piani di Dio: «... i Caldei [i Babilonesi], popolo feroce e impetuoso, che percorre ampie regioni per occupare dimore non sue. È feroce e terribile, da lui sgorgano il suo diritto e la sua grandezza. Più veloci dei leopardi sono i suoi cavalli, più agili dei lupi di sera. Balzano i suoi cavalieri, sono venuti da lontano, volano come aquila che piomba per divorare. Tutti, il volto teso in avanti, avanzano per conquistare. E con violenza ammassano i prigionieri come la sabbia» (Ab 1,6-9).. Per di più essi si vantano della loro forza e violenza attribuendole alla potenza del loro dio Marduk, più forte di qualsiasi altro dio.
Verrà il momento
Allora il profeta si rimette a discutere con Dio, ma Dio gli dice che deve avere pazienza perché ben presto verrà anche il momento della disfatta di Babilonia ad opera di un popolo ancora più forte. Ma Abacuc non ci sta a questo tipo di logica: che senso ha una storia in cui un popolo opprime gli altri popoli e poi a questo popolo succede un altro popolo oppressore? Mutano i nomi dei popoli, ma la logica rimane la stessa: l’oppressione la fa da padrone nella storia umana! Per Abacuc occorre che Dio riprenda le redini della storia, che intervenga per eliminare i popoli oppressori, qualsiasi nomi essi abbiano. È lo stesso Dio di Israele che deve farsi garante di pace e di giustizia.
E il Signore si rimette in dialogo con il profeta e dice che sicuramente interverrà ed eliminerà ogni oppressore, farà soccombere tutti coloro che non hanno l’animo retto e vivranno invece i giusto che hanno fede: «Scrivi la visione / e incidila bene sulle tavolette, / perché la si legga speditamente. / È una visione che attesta un termine, / parla di una scadenza e non mentisce; / se indugia, attendila, / perché certo verrà e non tarderà. / Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, / mentre il giusto vivrà per la sua fede» (Ab 2,2-4).
Nel terzo ed ultimo capitolo del libro, in una potente composizione innica, il profeta mette in scena una epifania in cui il Signore irrompe nella storia umana scavalcando monti e seminando panico, preceduto dalla peste personificata e seguito dalla febbre ardente. Nulla si può opporre al Signore, che come un arciere scaglia lampi come frecce. Abacuc vede così realizzato ciò che aveva sperato e chiesto al Signore: «Il mio intimo freme, / a questa voce trema il mio labbro, / la carie entra nelle mie ossa / e tremo a ogni passo, / perché attendo il giorno d’angoscia / che verrà contro il popolo che ci opprime. / ... / Ma io gioirò nel Signore, / esulterò in Dio, mio salvatore. / Il Signore Dio è la mia forza, / egli rende i miei piedi come quelli delle cerve / e sulle mie alture mi fa camminare» (Ab 3,16.18-19).
La salvezza di chi crede
Il messaggio del profeta Abacuc allora è davvero prezioso anche per il nostro tempo, per essere in grado di leggere i «segni dei tempi» e di interpretare la storia anche contemporanea sorgendo in essa la regia di Dio. Anche dal punto di vista letterario Abacuc si contraddistingue per il suo stile brillante e icastico, tanto che un commentatore ha osato definire il suo libretto «uno dei più attraenti della Bibbia … per l’armoniosa bellezza di alcuni passi, per la nobiltà e la sincerità dell’accento».
Il passo che tuttavia ha reso popolare Abacuc presso il cristianesimo si compone in ebraico di sole tre parole: wesaddîq be’ěmûnātô yihyeh («e il giusto per la sua fede vivrà») (Ab 2,4b). Il senso originale è assai semplice: chi confida in Dio restandogli fedele salverà la propria vita, mentre invece «soccomberà chi non ha l’animo retto». L’apostolo Paolo invece inserì questa frase nella sua tesi di fondo circa la teologia della giustificazione: «Io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco. In esso infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: Il giusto per fede vivrà» (Rom 1,16-17). Per Paolo il concetto è chiaro: colui che è reso giusto («giustificato») mediante la sua fede potrà ottenere la vita divina.