Le esperienze che ci hanno attraversato

Riflessione a più voci dopo i campi e i pellegrinaggi missionari 

Image 162Quelle che seguono sono una parte delle riflessioni di alcuni partecipanti a campi di lavoro e pellegrinaggi legati alle missioni, che, da una parte all’altra del nostro continente, hanno coinvolto tante persone nell’estate scorsa. In Turchia, per la prima volta, si è potuto organizzare un campo di lavoro, mentre quello di Romania è solo l’ultimo di una lunga serie; la storia dei pellegrinaggi a Santiago di Compostela e in Terrasanta si perde nei secoli scorsi e fa sentire il pellegrino parte di una storia quasi senza tempo.

Campo di condivisione in Turchia

8 luglio 2012. Siamo dodici persone che non si conoscono tra loro, pronte ad affrontare un’esperienza in un luogo che non conosciamo. L’unica cosa che sappiamo è che dovremmo prenderci cura di persone in stato di handicap. Siamo tutti molti carichi e ricchi di volontà, pronti a darci una mano l’un l’altro. All’una e mezza della notte siamo davanti alla chiesa cattolica di Antiochia di Siria, dove ci aspetta padre Domenico che ci accoglie calorosamente. La sveglia alle 7,30 ci invita ad affrontare una giornata ricca di conoscenze, in particolare delle persone di cui ci prenderemo cura: ecco, non avevo mai visto così tanti bambini malati e, per un momento, non riesco a pensare ad altro se non a cercare una soluzione per aiutarli e per comunicare con loro, anche se non conosco nemmeno la loro lingua.

Poi ci viene spontaneo cercare di comunicare con il linguaggio dei gesti, con loro che reagiscono ridendo: probabilmente ai loro occhi risultiamo buffi. Le educatrici sono pronte ad accoglierci con simpatia e allegria, mentre suor Diba, che parla il turco, ci aiuta a comunicare con loro. Ci troviamo davanti bambini e adulti, oltre cento malati, dove le educatrici cercano di fare il possibile per occuparsi di tutti. Nonostante queste persone soffrano molto, sono felici di dare e ricevere affetto, e mi basta guardarli negli occhi per capire che saranno loro ad arricchire me. Si lavora con loro con semplicità e si sta benissimo… (Rosalba Uccello)

Tre insegnanti, due avvocati, un’ostetrica, una biologa, un macchinista delle ferrovie dello stato, una donna tuttofare, un musicista, padre Ivano e suor Chiara: cosa ci fanno persone così diverse insieme? Semplice: abbiamo deciso di vivere un’esperienza nuova nel cuore della Turchia; un tempo di servizio, da spendere nel centro diurno per disabili di Antiochia, culla delle prime comunità cristiane. E anche se alla partenza eravamo al corrente di quello che avremmo fatto, nessuno di noi sapeva davvero cosa aspettarsi e cosa avrebbe trovato una volta giunto a destinazione. Sicuramente l’impatto è stato forte. Sì, entrare nella vita di questo caldissimo paese ha richiesto di certo un piccolo cambio di vedute e presentato qualche difficoltà, non ultima quella linguistica, ma ciò che abbiamo trovato è valso senza dubbio i piccoli sforzi fatti. Zirem, la scuola dove abbiamo trascorso le nostre giornate, accoglie più di un centinaio di ragazzi di diverse età e con diverse problematiche, aiutati da educatrici e ragazzi con disabilità più leggere; è sostenuta da fondi statali e… dalla provvidenza! Il nostro compito, in teoria, era di animare, proporre, insegnare cose nuove, ma in realtà ciò che ci siamo ritrovati a vivere insieme a queste persone accoglienti e ricche di umanità è stato ben più di questo. Abbiamo condiviso attività manuali, il riordino della serra, balli e momenti canori turchi e italiani, scambi gastronomici, il tutto scandito dal the turco. La risposta alla nostra rumorosa presenza (del resto si sa, noi italiani non perdiamo occasione per farci riconoscere) si può riassumere in una parola sola: accoglienza. Accoglienza da parte degli educatori del centro, che non solo hanno avuto una grande disponibilità nel lasciarci intervenire nella routine giornaliera della scuola, ma che si sono messi in gioco in prima persona, partecipando allo svolgimento delle attività che man mano proponevamo. Accoglienza dei ragazzi, fatta di parole, che sfortunatamente non sempre riuscivamo a capire, ma soprattutto di sguardi, gesti, sorrisi, che ti fanno comprendere che quello che c’è nel cuore, in un modo o nell’altro, trova sempre il modo per essere espresso, nonostante le barriere! Accoglienza da parte del popolo di Antiochia e delle persone che lavoravano nel bazar. Accoglienza che abbiamo ritrovato anche durante gli ultimi due giorni trascorsi ad Istanbul, nel convento di fra Alberto, con Andreas che ci faceva da guida, tra Moschea Blu e Santa Sofia, Palazzo del sultano e quartieri europei, Gran bazar e mare… (Elisa Montanari e Greta Carnevali)

Image 170Campo di lavoro in Romania

Sighet, Romania. Non sapevamo bene cosa aspettarci prima di partire, né cosa avremmo trovato, forse nemmeno cosa di preciso ci aveva portato a quell’esperienza: non avevamo nemmeno ben chiaro lo scopo del campo. Sì, sapevamo che avremmo conosciuto una realtà diversa, un popolo che aveva sofferto molto, e che avremmo fatto animazione con dei bimbi e ragazzi, ma in realtà lo scopo vero del campo ce lo ha detto padre Filippo appena arrivati: cercare di ridare bellezza alle persone, ai ragazzi, semplicemente stando con loro, dandogli amore e attenzione, ridando fiducia all’uomo che non è solo capace di abbandono, cattiveria o indifferenza, ma è soprattutto capace di fare grandi e belle cose per sé e per gli altri.

Un altro scopo era quello di renderci conto della povertà materiale e “spirituale” di quel Paese, per apprezzare e dare più valore a quello che abbiamo a casa, ma soprattutto, proprio perché ci è stato donato così tanto, riuscire, una volta tornati, a condividere quello che abbiamo, le nostre ricchezze e le nostre povertà con gli altri, con chi ne ha più bisogno.

Detto questo, abbiamo trovato veramente un gruppo di giovani pieni di carica, di voglia di stare insieme e di lavorare per aiutare a loro volta. Abbiamo trovato una realtà che, pur davanti a tanta sofferenza e a volte a vera bruttezza, ti fa davvero aprire gli occhi, per tanta speranza e voglia di migliorare le cose, nonostante le difficoltà, nonostante le famiglie scapestrate, e le tante storie di sofferenza e abbandono… (Anna Marconi e Federica Feretti)

Le motivazioni che ci hanno spinto a intraprendere questo viaggio sono le più diverse, ma sicuramente tutti, a Sighet, abbiamo trovato qualcosa in più di ciò per cui ci eravamo messi in cammino. Quello che ci si porta a casa è la voglia di mettersi in gioco e di dare ogni giorno il meglio di noi stessi agli altri e di non abbatterci, come spesso si è tentati di fare, quando non ci sentiamo abbastanza capaci di qualcosa. Sighet ci ha insegnato che ognuno di noi, come ogni bambino che abbiamo incontrato, può mostrare il buono dell’uomo quando si dà per gli altri, la consapevolezza di non trovarci su questa terra per caso e di essere strumenti nelle mani di Dio, parte del suo corpo che vive e si muove per qualcosa di più grande, che trascende la singolarità di ognuno di noi, che rimane sempre vivo ed è alimentato ogni volta che operiamo nel suo nome per i nostri fratelli.

Ci si porta a casa un grande silenzio e insieme un grande rumore: il silenzio come momento della relazione con noi stessi e con Dio, in cui possiamo condividere le nostre gioie con lui e i nostri problemi; il rumore perché anche dopo il rientro sono più di mille le voci, le grida, le parole sussurrate dai bambini che continuano a ronzarci in testa. Ci si porta a casa la comunità, l’idea che ogni cosa venga condivisa e che c’è un’umanità buona che vive e lotta nel mondo e di cui il gruppo di campisti cerca di essere specchio. Ci si porta a casa l’affetto, con cui a Sighet si viene accolti, a partire da coloro che ti ospitano offrendo la loro casa e soprattutto le loro tradizioni… (Maria Letizia Arduini)

Image 173Il Cammino di Santiago

«Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi», dice Marcel Proust. 330 chilometri è la distanza che separa Leon da Santiago de Compostela. L’importanza del Cammino non è nel percorso: i cuori, gli occhi, ma soprattutto i piedi che nei secoli hanno attraversato i piccoli e grandi borghi che si snodano da Somport al capo Fisterra (la finis terrae, la fine della terra) contribuiscono a creare una delle più grandi storie nella Storia, quella di un cammino che non è solo escursione, di un viaggio che non è vagabondare, ma vero e proprio pellegrinaggio, perché la meta è certa.

Il racconto di un’avventura del genere non può essere quindi che profondamente personale e difficile da spiegare perché non si tratta di un semplice “trasferimento” da un punto A ad un punto B, ma di vera e propria vita, fatta di gioia e dolore, fatica e riposo, momenti di comunione e momenti intimi. Non ci sono molte cose che ti preparano ad un cammino del genere: l’Internet ti può dare qualche indicazione visiva o storica, la preparazione atletica è sicuramente utile, ma non indispensabile; nemmeno i racconti di chi c’è stato rendono appieno l’idea, proprio per quel carattere personale di cui sopra. Una cosa che aiuta, però, io ho avuto la fortuna di averla: un gruppo che, pur non conoscendo nella sua interezza, s’è dimostrato non solo aperto all’accoglienza, ma anche desideroso di avermi, di conoscermi, di volermi bene…

Elemento caratteristico del Cammino di Santiago è il tempo, che assume una dimensione completamente nuova, per cui dopo due soli giorni di cammino ti sembra di essere in viaggio già da settimane. Dopo 12 giorni sembra d’essere stati per strada per mesi. Il tempo “perso” a mettere un piede avanti all’altro diventa di colpo pieno, vivo, vero, e noi, insieme, l’abbiamo posseduto davvero, facendolo diventare ricco. Nello scambio di esperienze finale, tutti siamo stati concordi su una cosa: il cammino non era finito, e quello che seguiva non era un “ritorno” ma una ripartenza. (Luca Bassoli)

 
PImage 179ellegrinaggio in Terrasanta

Ogni tanto capita: passano in tv e su Youtube le immagini di uomini nerovestiti che menano le mani e si prendono a randellate. Lì, al Santo Sepolcro, il luogo santo per eccellenza, danno indecoroso spettacolo. “Quando andrai al Santo Sepolcro perderai la fede”. I greci hanno eretto muri, dietro cui si sono barricati, gli etiopi vivono in esilio e in miseria là in alto, nelle loro casupole malmesse; la chiave che chiude e apre l’edificio è custodita da tempo immemorabile da una famiglia musulmana, che la porta al mattino e alla sera; quelli che stanno dentro fanno a turno per l’apertura e la chiusura. Strano, ma vero, non mi sono scandalizzata. Mi è parsa semplicemente la raffigurazione della realtà umana. Del caos (perché non ritenerlo un caos creativo?) che ci abita, delle forze opposte che ogni giorno combattono nel nostro cuore di carne, bene, male, una via di mezzo tra l’uno e l’altro, senza infamia e senza lode.

Non mi sono scandalizzata, piuttosto quasi rinfrancata nel riconoscere nelle passioni che agitano da secoli quel santo luogo quelle stesse che mettono confusione nella mia vita e nelle vite di chi mi circonda: nonostante i tentativi continui di governarlo, di ridurlo ad un improbabile e fallace ordine perfetto, il caos regna. Per fortuna e grazie a Dio

Quale sia questo Dio che ringraziamo è da vedere. Lì, a Gerusalemme, ci sono tutti gli dei, lì c’è tutta l’umanità, quella che crede e quella che non crede (e questo è noto solo a quel Dio). Nel Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, nel Cristo, il figlio di Dio, in tutte le sue multiformi accezioni, in Allah il cui profeta è Maometto, tanto per richiamare i più famosi. Umanità pittoresca per chi ci arriva in vacanza qualche giorno e poi se ne torna a casa dove non ci sono checkpoint da attraversare per andare al lavoro o raggiungere un ospedale, dove non si convive con soldati e poliziotti armati fino ai denti. Umanità agguerrita, rassegnata, arrabbiata, speranzosa, spaventata che il proprio Dio, qualunque esso sia, ha chiamato a vita esattamente lì, in quel pezzetto di terra dove tutti gli dei si sono dati convegno e si ostinano a voler restare. (Lucia Lafratta)