In questo numero natalizio, la rubrica propone due articoli per un coro di nove voci: innanzitutto ci siamo chiesti cosa significa dedicare la vita all’editoria missionaria grazie all’intervista a Francesco Grasselli, per trent’anni impegnato a vario livello - da redattore a direttore, ma sempre con la stessa grande passione - nell’EMI, l’Editrice Missionaria Italiana; poi voci diverse raccontano quattro esperienze estive, che rimarranno nel cuore dei partecipanti per molte stagioni: i Campi di lavoro in Turchia e in Romania e i pellegrinaggi a Santiago e in Terrasanta.
Saverio Orselli
Il peccato di non missione
Intervista a Francesco Grasselli, già direttore dell’EMI
Festassieme è sempre un luogo di incontro. Non solo con i missionari, ma anche con amici legati al mondo della missione e con esperti in grado di aiutare a chiarire e indicare il cammino più adatto per diffondere il messaggio e la testimonianza missionaria. La giornata di festa trascorsa nel giugno scorso nel convento di Imola ha visto la partecipazione di Francesco Grasselli che, dopo aver fatto studi di teologia e psicologia e aver insegnato per un certo tempo, per oltre trent’anni è stato impegnato nell’editoria missionaria nell’ambito dell’EMI, l’Editrice Missionaria Italiana, di cui oggi cura come segretario la rivista “Ad Gentes”. Ne ho approfittato per parlare della stampa missionaria.
La sua esperienza nel campo editoriale è assolutamente importante: qual è il ruolo della stampa nella proposta missionaria?
Direi che i ruoli sono essenzialmente due. Il primo, fondamentale, è quello di far conoscere veramente la realtà, sia sociale sia religiosa, dei vari popoli; perché anche il messaggio cristiano deve inserirsi in questa realtà e non arrivare dall’alto, come fosse disceso improvvisamente da chissà dove. Altrettanto importante è il ruolo di controinformazione, perché la nostra informazione è molto drogata, dovendo spesso servire interessi particolari, non dice la verità su tutte le cose. Tanto per fare un esempio, si parla molto della povertà dell’Africa, anche se noi sappiamo bene che, al contrario, è il continente più ricco dal punto di vista delle ricchezze naturali. Dell’Africa però sentiamo sempre parlare in termini di povertà, perché le ricchezze le portiamo via noi, popoli occidentali, attraverso le multinazionali. Potrei citare tanti fatti concreti al proposito: è proprio di questi giorni la notizia della scoperta di un grande giacimento di oro in Tanzania, ma la popolazione locale non ne ha saputo niente, perché la multinazionale di turno, che ha acquistato la miniera per due soldi, porterà via tutto senza lasciare nulla al Paese. Ecco, quando i missionari scoprono queste cose e le divulgano, rendono un servizio molto prezioso. Ricordo, al proposito, di avere chiesto di fare la presentazione di un libro che alla EMI ebbe molto successo - la “Guida al consumo critico”, del Centro nuovo modello di sviluppo - a un famoso economista e sociologo americano che, benché fosse un non credente e molto critico nei confronti della Chiesa, quando gli feci notare che la nostra editrice era cattolica, mi rispose che se di queste cose non parlano chiaro le chiese non lo farà nessuno, perché tutti gli altri hanno degli interessi da difendere.
Nel suo intervento, dedicato ai cinquant’anni dall’inizio del concilio Vaticano II, aperto l’11 ottobre 1962 da Giovanni XXIII, ha parlato di un peccato sconosciuto alla maggior parte dei cristiani o, quanto meno, che non rientra tra quelli oggetto di confessione e cioè il peccato di “non missione”, inteso come l’omissione del mandato fondamentale affidato ai credenti d’essere missionari. Quando, secondo lei, le nostre riviste cadono in questo peccato?
Le riviste missionarie direi che sono attente a non cadere in questo peccato, mentre molto meno attenta lo è la grande editoria cattolica. Per citare un caso che mi coinvolse personalmente, quando uscì il famoso libro su migliaia di casi di desaparecidos avvenuti durante la dittatura militare (1976-1983) in Argentina - mi rivolsi a tutte le grandi editrici cattoliche, prima di pubblicarlo con la nostra piccola editrice, pensando che da noi fosse sprecato, visto l’enorme successo che aveva avuto in altri Paesi, ma da tutti ricevetti la stessa risposta: non ci interessa. Per noi fu un onore e una gloria pubblicarlo, ma non ebbe il rilievo che meritava. Un altro caso simile avvenne quando pubblicammo Futuro sostenibile (un testo curato dall’istituto di Wuppertal, in cui la sostenibilità si fonda su tre basi, la riconversione ecologica di tutte le attività economiche, la giustizia nei rapporti Nord/Sud e i nuovi stili di vita): prima di stamparlo noi, ottenendo grandi elogi dalla critica, provammo a proporlo alle grandi editrici pensando che fosse giusto dare un maggiore rilievo a quel testo. Purtroppo la risposta fu la stessa di “Nunca mas”: non ci interessa… con la scusa questa volta che si trattava di un rapporto che interessava
Quindi, sia con l’editoria cattolica che con quella laica non c’è stata grande collaborazione?
Collaborazione e interesse ci sono stati in qualche caso e in particolare, anche se non direttamente collegato all’editoria, quando creammo
Una curiosità: dei trent’anni all’EMI chissà quanti ricordi si porta dietro. C’è un aneddoto particolare che le torna in mente e che le ha fatto capire l’importanza di continuare nell’editoria missionaria?
Mi metti un po’ in difficoltà, perché sono tanti i ricordi, però in questo momento mi torna in mente il campanello della sede che suona in un orario improprio - considera che eravamo ancora messi male, costretti con gli uffici in una sorta di magazzino deposito di libri - e mi vedo arrivare due ragazzi che mi dicono di essere fidanzati e di aver letto un libro - non ricordo quale, perché è passato troppo tempo - della EMI che li aveva molto colpiti. “Siamo venuti qui per conoscervi, perché stiamo impostando la nostra vita e il nostro futuro e vorremmo formarci su queste tematiche”. Erano venuti da Firenze, apposta per conoscere