Dedichiamo la rubrica all’ascolto dei nostri vicini di casa emiliani, che nel maggio scorso sono stati colpiti dal violento sisma. Brunetto Salvarani, nostro collaboratore, ha vissuto il sisma e tutte le conseguenze in prima persona. Volentieri diamo spazio a quella che lui chiama l’urgenza di narrare e di narrarsi. Il terremoto ha evidenziato fortemente tante fragilità ma sta diventando occasione per sperimentare dal vivo anche l’interculturalità e l’interreligiosità.

Barbara Bonfiglioli


Lettura fenomenologica del sisma

Vivere le conseguenze del terremoto con spirito creativo accogliente

di Brunetto Salvarani

teologo e scrittore

 

Image 140Lo diceva Tolstoj

È nota la novella di Lev Tolstoj La morte di Ivan Il’ič, il cui protagonista è un giudice che ha sempre saputo di essere mortale, e ha visto vari amici abbandonare la vita. Quando si ammala lui, però, la concreta prospettiva di dover morire lo inquieta più di quanto avrebbe mai immaginato: cerca di buttarsi nel lavoro, ma senza risultati, perché il dato inoppugnabile della propria finitezza gli si affaccia di continuo alla mente. Mentre in passato riteneva che la cosa avrebbe riguardato sempre altri, e non lui. Qualcosa di simile è capitato a noi emiliani, con i terremoti del 20 e 29 maggio scorsi. Un’eventualità, quella di esser colpiti da un sisma importante, che non ritenevamo realistica, potendo accadere sì, ma sempre altrove: a L’Aquila, in Umbria, in Irpinia, in Friuli. Non qui, non in queste terre che ci siamo abituati a immaginare sin da piccoli appoggiate magicamente sull’acqua di più o meno antichi sedimenti alluvionali. Rassegnàti fatalmente ai fastidi di una location sui generis - nebbie e freddo pungente in inverno, afa umida e zanzare d’estate - ma non a questo. Per la verità già una quindicina d’anni fa, il 15 ottobre 1996, la zona compresa fra il Modenese e il Reggiano era stata oggetto di scosse non da poco: i danni maggiori, però, li aveva subiti il patrimonio storico-artistico - personalmente ne ho un ricordo forte essendo all’epoca assessore alla cultura nel mio Comune - mentre le case e il tessuto produttivo erano stati sostanzialmente risparmiati. E non c’erano state vittime. Ecco perché quell’evento produsse una memoria collettiva piuttosto blanda; ed ecco perché lo stupore - il sentimento prevalente, accanto all’ovvio istinto di sopravvivenza che è la concausa di una psicosi legata alla paura ancora diffusa - di fronte a quello che è stato definito da più parti un terremoto anomalo. La cui anomalia, dal nostro punto di vista, riguardava soprattutto il fatto che stavolta era toccato a noi, e non ad altri. A noi cui non poteva succedere, come a Ivan Il’ič.

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L’urgenza di narrare

Ora, il sisma ha favorito l’urgenza di narrare e di narrarsi, il bisogno di condividere e sentirsi meno soli. Sono sorti blog appositi, e la funzione di rete collettiva degli attuali social network è emersa a tutto tondo. Mentre la scommessa sul futuro resta se sapremo coniugare insieme la ricostruzione materiale con quella spirituale. Sì, perché il timore che di regola ci invade al tremore della terra, nostra madre, dipende in primo luogo dal nostro saperci mortali, finiti, esposti: mentre viviamo in una cultura che imita Prometeo e ci educa a vivere cercando di ignorare la nostra vera natura. Siamo stati esposti così a un triplice livello di fragilità, chiaro sin dai primi giorni dopo le scosse: la fragilità del nostro esistere come individui, appunto; quella del nostro vivere civile, messo alla prova soprattutto nell’individualismo dominante, costretti a sperimentare l’interculturalità e l’interreligiosità non più sui libri o teoricamente, ma dal vivo e nella fatica di una convivenza ancor più forzata del solito; e quella del nostro essere comunità ecclesiale, debole non solo per l’andamento dello Spirito del tempo ma per la carenza di spazi agibili e la difficoltà di trovare le parole giuste. Ma offrendoci altresì un’occasione di cambiamento, forse unica…
Per spiegarmi, torno per un momento al tre giugno, quando mi è capitato per la prima volta di partecipare a un’eucaristia all’aria aperta nella mia Carpi: in quel Parco delle Rimembranze che conosco bene sin dall’infanzia, all’epoca affollato di tende multicolori e di presenze multireligiose, dove sbucavano per ogni dove tappeti per la preghiera islamica e angeli della pastasciutta sikh, che offrivano agli sfollati piatti di minestra a quanti non avessero di che sfamarsi.

Image 142Consapevoli della precarietà

Nulla di strano, si potrebbe pensare, se non fosse che nella quasi totalità delle altre chiese della nostra piccola diocesi stava succedendo altrettanto, in cortili o spiazzi erbosi: su una cinquantina di edifici sacri sparsi tra Carpi e la Bassa, infatti, appena tre erano risultati agibili ai controlli tecnici dopo i colpi del sisma (mentre scrivo, sono diventati sei).

Una chiesa, la nostra, che stava manifestando senza pudori, così, tutta la sua povertà di mezzi, ma anche una prossimità estrema alla sua gente e alla sua terra, crudelmente ferite. A un tratto, come per un’illuminazione, mi venne in mente che quel giorno si celebrava la memoria liturgica di Giovanni XXIII. E mi scoprii a immaginare che il papa buono avrebbe sorriso bonariamente di fronte a quell’esperienza di una diocesi privata dei suoi bei templi storici e artistici ma capace di dire in mezzo al chiasso dei bimbi che giocavano poco più in là la cosa più decisiva di tutte in quel momento: che la Parola di Dio non viene meno, che l’amore prevale sulla morte, che occorre porci - in particolare nei momenti in cui ogni certezza sembra venir meno - nelle mani di Dio, con le nostre incongruenze, le timidezze, la voglia caparbia di ricominciare. Anche se sarà dura. E se in quelle settimane la chiesa carpigiana e diverse altre chiese sorelle erano ricche solo di inquietudine, di stanchezza e di occhiaie.
Del resto, eventi come quello che abbiamo vissuto (meglio: stiamo vivendo) hanno il potere di farci sentire come siamo davvero: minuscoli, precari, ma anche incredibilmente unici e irripetibili. Non solo le maniche, dovremo rimboccarci anche e soprattutto il pensiero, riflettere su quanto il pianeta prova a dirci con avvenimenti simili, accompagnare l’esigenza della ricostruzione materiale con i primi timidi passi di una ricostruzione interiore, antropologica, intima. Mentre il mattone iniziale di una nuova speranza dovrà essere l’educazione a un’idea della terra, dell’economia e del denaro completamente diversa da quella corrente. Se a noi colpiti dal sisma è detto continuamente di resistere e di tener duro (qui si dice “tgnir a bota”, e lo sapremo fare), forse la virtù più adatta in simili circostanze è quella della resilienza: perché resiliente è persona o materiale in grado di tornare alla condizione originaria, dopo una prova d’urto. Qui però la posta in gioco è ancora maggiore: tornare sì, ma, alla lettera, convertiti. E più disponibili a essere una comunità: vale a dire, dall’etimologia latina di communitas, cum-munus, una realtà collettiva dotata di un munus che può avere un triplice significato, che rimanda a un dovere comune, un debito e un dono-da-dare.