Dacci oggi i pani per condividere

Accompagnare prevede ruoli e atteggiamenti differenti

di Giovanni Salonia
frate cappuccino, psicoterapeuta

Image 050Educarsi assieme

«Sto attraversando un periodo difficile. Mi può accompagnare?». Questa è la domanda con cui oggi si chiede di iniziare una relazione d’aiuto. Centrale il verbo “accompagnare”. Parola nuova per un’attività da sempre esistita (padri spirituali, consiglieri, mentori e quant’altro). Ci si chiede: l’uso di un termine nuovo è dovuto ad un banale adattarsi alle mode o riflette un significativo cambiamento di mentalità (e di metodo)?

Proviamo a comprendere i passaggi che hanno portato a questa novità semantica: forse in essi è racchiuso anche il senso dei cambiamenti di prospettiva e di metodologia nelle relazioni di aiuto.

Da sempre educare e curare appartengono ai compiti costitutivi della condizione umana: si diventa umani se si è educati alla condizione umana. Prendersi cura di chi soffre (e di chi muore) è specifico degli umani ed il curare ha avuto sempre, nella storia, una valenza sacra: prova ne sono il giuramento di Ippocrate o la percezione sociale dei taumaturghi. Nobile è considerata l’attività del prendersi cura dei piccoli e dei più deboli.

Negli anni Sessanta però - con il passaggio da una società verticistica e coesa (fondata sul noi) ad una società orizzontale, focalizzata sull’io della soggettività e, da lì, sull’io-tu della relazione - non solo sono state messe in crisi le istituzioni e i ruoli in essa codificati, ma si è arrivato anche a qualificare l’educazione e la cura come attività a rischio di violenza per il potere che, attraverso di esse, si esercita su persone che, per definizione, sono incapaci di proteggersi da eventuali manipolazioni.

È accaduto così che, con la valorizzazione (necessaria, anche se a tratti esasperata) della soggettività, si è preferito parlare di autorevolezza e non più di autorità: la fiducia nei confronti di educatori e “curatori” non è più scontata, ma correlata al modo in cui vengono esercitati questi compiti. Nel mondo ecclesiale si comincia a criticare il termine “direzione spirituale”, dato che “direzione” allude a qualcuno che imponga una traiettoria. A livello educativo risuonano come slogan di un mondo nuovo le parole di Paulo Freire: «Nessuno educa nessuno. Ci si educa assieme».

Image 052Struttura asimmetrica

In altre parole, la soggettività entra in collisione con la necessità dell’essere educati e/o curati: mentre la docilità e l’affidarsi vengono molto sbrigativamente connotati come espressioni di debolezza di cui vergognarsi, gli atteggiamenti di autoeducazione, di autoreferenzialità e, in casi limite, di irriverenza sono proposti e incoraggiati.

Cambiamenti di paradigma, questi, che aprono spazi e possibilità nuove alla creatività del singolo e del gruppo (del popolo, direbbe Freire). Vengono smascherate le manipolazioni nascoste che - nei micro come nei macro sistemi - negavano e zittivano la soggettività e fioriscono in modo scomposto ma creativo piccole narrazioni (per fare da controcanto a Lyotard) di espressioni artistiche, di cantautori, di poeti, di narratori. Sembrava che l’eros della creatività bloccato potesse finalmente sprigionare la propria energia.

A fronte di tale ricchezza lentamente emergono i rischi, ed in particolare il rifiuto preconcetto di essere aiutati anche quando si rivela necessario. In questo contesto, per sottrarre alla relazione di aiuto ogni sfumatura di umiliazione, viene inventato il termine “accompagnare”, la cui etimologia (condividere il pane) mette al riparo sia dalla tentazione di guidare, indirizzare, dirigere che da quella di dipendere, appoggiarsi, alienarsi.

Per correttezza è necessario tuttavia notare come il termine “accompagnamento”, usato (come avviene oggi) per indicare le relazioni di aiuto, ha nel proprio etimo una sfumatura di ambiguità (quasi una lieve forzatura), dato che cerca di attutire la realtà inoppugnabile dell’asimmetria relazionale che è propria della relazione di aiuto. Chi accompagna, infatti, ha sempre e comunque la responsabilità della relazione e non può né percepirsi né comportarsi a livello paritario. Migliorare, infatti, il modo in cui si esercita il “prendersi cura” non deve mai stravolgere la struttura asimmetrica della relazione, quell’ordo - direbbe Agostino (e confermano le terapie familiari) - che rende genuino ogni amore.

Costruire il senso della vita

È un ordo amoris per cui il prendersi cura non può essere autentico se viene esercitato assieme al bisogno di avere potere, di riceverne successo, di vincere la solitudine. L’essere aiutato deve crescere e maturare al di là della dipendenza e dell’umiliazione. Nella relazione di aiuto (ossia nell’accompagnare) chi accompagna deve promuovere nell’accompagnato il dialogo interno, il potere e la creatività personale, la solitudine feconda.

Ma c’è un’altra ragione che sta alla base del così diffuso interesse sull’attività dell’accompagnare. Nella postmodernità, infatti, la inevitabile attenzione al soggetto (e al suo diritto alla felicità) e alla relazione (non in quanto istituzione, ma come luogo della crescita) ha messo a tema il mondo interiore. Da quando Freud ci ha mostrato la ricchezza del mondo interiore del bambino, è cresciuta l’attenzione ai propri vissuti, al proprio corpo, ai propri percorsi di crescita. Da una teoria evolutiva che studiava lo sviluppo infantile e si apriva progressivamente all’adolescenza, oggi siamo arrivati allo studio dei vissuti che man mano si succedono lungo il ciclo vitale. La vita affettiva e relazionale ha conquistato un posto decisivo nella cultura occidentale, per cui si sono moltiplicati i cammini di accompagnamento per la maturità della persona. È convinzione sempre più condivisa che ogni uomo ha diritto a star bene e a raggiungere la felicità, che - tradotta in percorsi - diventa raggiungere un senso di pienezza.

Il concetto di accompagnamento si è esteso a molti livelli. Si accompagna chi cresce nella ricerca del proprio personale intimo progetto, ma si accompagna anche chi lavora perché esprima il meglio di sé. Si accompagna a livello umano, culturale, esistenziale e spirituale. Non solo psicoterapia, quindi. Non solo accompagnamento spirituale. Ma anche counseling. Pedagogico. Pastorale. Anche filosofico: se non so che senso ha la vita e mi sento sano a livello psicologico, miscredente a livello religioso, da chi vado per farmi accompagnare? Se ieri il senso della vita si riceveva come una dote quasi indiscutibile, oggi ognuno è chiamato a costruire il senso della propria vita e il proprio senso della vita. E a scegliere, magari, dentro quale comunità di senso vuole inserirsi.

Il venir meno di nemici, di emergenze collettive apre il grande compito di una ricerca di senso a livello individuale. Risento ancora i brividi nel ricordo di Lina, una pediatra che appena seduta mi disse, decisa: «Sono venuta perché lei mi aiuti a morire. Ho il tumore, sono un medico e so che mi rimane poco tempo. Mi aiuti a morire». Mi presi cura di lei. Sentii tutta la drammaticità e la pietas di cui va riempito il termine “accompagnare”. È vero che io stavo con lei: accoglievo le sue lacrime, ascoltavo le parole cariche di quei dolori insopportabili anche al marito o al giovane figlio, stavo con le paure terribili e le crude previsioni di quello che sarebbe stato. Ma anche lei mi nutriva: il pane amaro che condivideva con me mi (ci) apparteneva.

Image 055Niente pretendere, niente rifiutare

Ancora un punto: come accompagnare? Non basta essere sensibili al dolore altrui. Non bastano gli anni e l’esperienza. È necessario un apprendimento specifico. Su questo non si può transigere: se la competenza richiesta all’amico è l’amicizia, a chi si propone come accompagnatore è richiesta la competenza del saper accompagnare. Competenza che non si improvvisa e non può essere confusa con la sensibilità (che rimane condizione necessaria, certo, ma decisamente insufficiente). Nei percorsi formativi si impara con la mente, con il cuore, con le relazioni. Si apprende, innanzitutto, a non usare le lacrime e i vissuti del fratello come pre-testo per portare a compimento proprie lacrime non piante, ingiustizie non riparate, solitudini non feconde. E poi si apprende a restare in silenzio davanti all’altro. Rimanere nel silenzio che non è assenza di parole (non so cosa dire), ma pienezza di parole (precise e puntuali) che non hanno bisogno di essere verbalizzate.

Si apprende quando il pianto deve scorrere per fare emergere poi il placarsi della rassegnazione e quando invece “sta al posto di altro” e va oltrepassato. Si apprende come non avere paura o bisogno in modo da lasciare il fratello libero di dire quello che vuole: che ti ama e che ti odia, che ti invidia e che è grato, che preferisce tacere o non vuole smettere di parlare. Accogliere ogni parola e confrontarla non con parole da te attese, ma unicamente con la parola che risuona nel corpo del fratello o nel grembo della relazione dentro la quale si è collocati. Accompagnare significa essere e rimanere con le mani vuote: niente attendere, niente rifiutare, guardare solo alla crescita del fratello. Amore agapico. Certo. Ma l’amore non basta (lo scrisse Bettelheim, anni fa). È necessaria la magia: quella che accade quando si incontrano la verità (o, meglio, le tante verità) e l’accoglienza dell’altro.

Per concludere. C’è l’accompagnamento richiesto dalla vita: quello dell’essere genitori, educatori, sacerdoti, medici, operatori di relazioni di aiuto. Un accompagnamento che richiede un continuo porsi al di là dei propri bisogni e delle proprie paure per prendersi cura dell’altro. Poi abbiamo l’accompagnamento “professionale”, che vuole competenze precise sulle regole della relazione e in particolare su quelle che presiedono il curare le ferite e il riaprire i sentieri interrotti della propria integrità e della propria pienezza. Infine c’è l’accompagnamento come dimensione di reciprocità della condizione umana: quell’essere compagni di viaggio perché si mangia lo stesso pane dell’esistenza e della fede. Quel pane quotidiano che invochiamo e mangiamo ogni giorno. Quel pane che condividiamo in ogni eucaristia.

Possiamo pregare, allora, parafrasando una famosa orazione post-comunione: Signore, fa’ che, accompagnati da Te, possiamo farci accompagnare e accompagnare i nostri fratelli. Amen.