Un segno della sua premura

La Regola è il modo di Francesco per accompagnare i fratelli

di Felice Accrocca
docente di Storia della Chiesa alla Pontificia Università Gregoriana

Image 039La consegna di sè

La proposta cristiana di Francesco d’Assisi trovò la sua definitiva espressione nella Regola confermata da Onorio III il 29 novembre 1223, che riassume la vita della fraternità, chiamata a osservare la povertà e l’umiltà e il vangelo di Gesù Cristo, in comunione con la Chiesa e in obbedienza a essa. Alla stesura del testo collaborarono persone di formazione diversa; nondimeno, è chiaramente visibile l’orma impressa da Francesco.

Si può dire, anzi, che la Regola sia la consegna che Francesco fa di sé stesso ai frati, il segno più evidente della sua presenza nella loro vita nel corso dei secoli. La Regola codifica, al tempo stesso, il modo in cui i frati avrebbero dovuto rendersi presenti gli uni agli altri nella quotidianità della vita, accompagnandosi reciprocamente, facendosi custodi gli uni degli altri. Essi, infatti, avrebbero vinto più facilmente la lotta contro il peccato qualora si fossero manifestate reciprocamente le proprie necessità, «poiché se la madre nutre e ama il suo figlio carnale, quanto più premurosamente uno deve amare e nutrire il suo fratello spirituale?» (Rb VI, 8: FF 91). Allo stesso modo, doveva prendersi cura dei frati malati, cosa non sempre facile, come rivela il monito perentorio di Francesco. Fin quando i frati erano rimasti un piccolo nucleo, provenienti più o meno dallo stesso ambiente geografico, anche i rapporti interpersonali ne erano stati facilitati; ma più il loro numero cresceva e la provenienza geografica e sociale si diversificava, più i loro rapporti tendevano notevolmente a modificarsi, sottostando a una progressiva frammentazione. Per questo è detto che «se qualcuno di essi cadrà malato, gli altri frati lo devono servire come vorrebbero essere serviti essi stessi» (Rb VI, 9: FF 92). Il corsivo è mio: il tono impositivo ne rivela l’urgenza, a conferma del fatto che non sempre i frati si mostravano pienamente disponibili nei confronti di quanti tra loro cadevano malati.

Image 041L’indice del cambiamento

Il capitolo VII, sulla penitenza da imporre ai frati caduti in peccato, rivela l’evoluzione in atto. Il tono usato è diverso da quello adottato in precedenza: nel capitolo V della Regola non bollata si affermava che, qualora qualcuno si fosse mostrato incline a «camminare secondo la carne e non secondo lo Spirito», i frati avrebbero dovuto ammonirlo, istruirlo e correggerlo «con umiltà e diligenza». Nel caso in cui egli, «dopo la terza ammonizione», non avesse voluto emendarsi, avrebbero dovuto inviarlo al proprio ministro o notificargli la cosa (vv. 5-6: FF 17). La Regola bollata stabilisce invece che qualora qualcuno, «per istigazione del nemico», avesse peccato «mortalmente», per quei peccati per i quali i frati sono tenuti «ricorrere ai soli ministri provinciali», i rei quanto prima sarebbero dovuti ricorrere al proprio ministro. I ministri, poi, nel caso fossero stati sacerdoti, erano tenuti a imporre essi stessi la penitenza con misericordia; qualora non lo fossero stati, avrebbero dovuto farla imporre da «altri sacerdoti dell’Ordine», nel modo che ad essi pareva, «secondo Dio», «più opportuno» (VII, 1-2: FF 93-94). Veniva meno così l’invito alla correzione fraterna che doveva sovrintendere ai rapporti tra i frati; la correzione comunitaria cedeva il passo alla vigilanza individuale: il frate peccatore, di sua propria iniziativa, doveva ricorrere al ministro. Inoltre, era molto più sviluppata la casistica dei peccati: si parla infatti di peccati riservati ai soli ministri provinciali (il testo accenna a una precisa normativa su tale materia). L’accresciuta presenza dei sacerdoti all’interno dell’Ordine rendeva poi necessario riferirsi esplicitamente al loro ministero.

In ogni caso, tuttavia, i frati non dovevano adirarsi né turbarsi per il peccato altrui, «perché l’ira e il turbamento impediscono la carità in sé e negli altri» (VII, 3: FF 95): la vita in comune aveva le sue difficoltà e il peccato di uno finiva per scaricarsi sugli altri, che ne venivano inevitabilmente danneggiati; era facile, perciò, che in tali situazioni coloro che ne facevano le spese finissero per ribellarsi e adirarsi, o perlomeno - nella migliore delle ipotesi - fossero tentati di farlo.

Senza disprezzare e giudicare

Nel capitolo X si torna a parlare di correzione e ammonizione dei fratelli. Non si accenna alla correzione reciproca: ai ministri era chiesto di visitare, ammonire e correggere i frati umilmente e caritativamente; ai frati - i quali spontaneamente, per seguire Dio, avevano rinunciato alla propria volontà - era chiesto invece di obbedire ai ministri in tutto ciò che avevano promesso di osservare e non era contrario alla Regola e all’anima loro. I ministri dovevano rapportarsi ai frati con sentimenti di accoglienza e benevolenza, fino al punto che a quest’ultimi sarebbe stato facile poter parlare con loro come erano soliti fare i signori con i servi: i ministri, infatti, come indica il titolo che ne specifica la funzione, erano i servi (ministri, in latino) di tutti gli altri frati (cf. X, 1-6: FF 100-102).

La seconda parte del capitolo costituiva invece un’esortazione - «Ammonisco, poi, ed esorto», esordisce Francesco con espressioni incontestabilmente sue - affinché i frati si guardassero «da ogni superbia, vana gloria, invidia, avarizia, cura e preoccupazione di questo mondo, dalla detrazione e dalla mormorazione», sforzandosi di desiderare «sopra ogni cosa» «di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione», «di pregarlo sempre con cuore puro e di avere umiltà, pazienza nella persecuzione e nell’infermità», di amare i propri persecutori e calunniatori (X, 7-10: FF 103-104).

Avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione, cioè acquisire le disposizioni necessarie per essere inabitati realmente dalla Trinità; quattro “opere” erano designate a mostrarlo: la preghiera di un cuore puro, cioè non superbo, vanaglorioso o maldicente (atteggiamenti, questi, da cui i frati sono messi in guardia); l’umiltà, intesa come conoscenza di sé, dei propri peccati e delle proprie abiezioni; la pazienza nelle persecuzioni e nelle infermità; l’amore per i nemici, per coloro che ci calunniano, ci riprendono e ci fanno soffrire.

I frati avrebbero dovuto vivere poveri, senza toccar denaro, senza disprezzare o giudicare nessuno, tantomeno gli uomini «vestiti di abiti morbidi e colorati» o quelli che si nutrivano di «cibi e bevande delicate»; piuttosto, diceva Francesco in un passo tutto suo, «ciascuno giudichi e disprezzi se stesso» (II, 17: FF 81). La Regola sanciva per sempre questa scelta di vita: attraverso di essa Francesco continuava a stare al loro fianco, facendosi loro compagno di strada. Essa conserva intatta - almeno in alcuni passaggi significativi - la sua voce, che i suoi sono tenuti ad ascoltare, se vogliono essere compresi nel numero dei frati.

PIETRO MARANESI-FELICE ACCROCCA (A CURA)
La Regola di frate Francesco. Eredità e sfida
Editrici Francescane, Padova 2012, pp. 687