Comunque vada, sarò con te

Dio si fa presente all’uomo che soffre, accogliendo il suo risentimento

di Giuseppe De Carlo
della Redazione di MC

Image 100Dov’eri?

L’esperienza quotidiana di ogni persona umana è segnata dalla tragica presenza del dolore fisico (impossibilità di usufruire appieno delle potenzialità del proprio corpo), della sofferenza morale e psicologica (lutti, delusioni, sconfitte, esperienza dell’incapacità di stabilire rapporti di piena comunione e duraturi, disprezzo, odio, ecc.) e infine della morte.

Da sempre si è cercata una risposta al problema della sofferenza e del male, perché ne va del senso della vita, se la si può affrontare con qualche speranza ed ottimismo, oppure se essa è solo una tragica vicenda, un terribile destino di cui si è vittime impotenti. In tutte le culture e religioni, quando ci si trova di fronte alla sofferenza, si chiama in causa la divinità, e in un modo o nell’altro si mette in questione il rapporto Dio-uomo.

Dalla tradizione greca ci sono pervenute le audaci e drammatiche parole del filosofo Epicuro (vissuto tra il IV e il III secolo a.C.): «Dio o vuole togliere il male e non può, / o può e non vuole, / o vuole e può. / Se vuole e non può, è debole; / se può e non vuole, è ostile; / se non vuole e non può, è ostile e debole; / se vuole e può - e questo solo si addice a Dio -, / da dove allora proviene il male? / E perché Dio non lo elimina?».

Dalla tradizione mesopotamica è giunto un testo antico-babilonese, risalente ad un periodo tra il 1950 e il 1530 a.C., intitolato Un uomo e il suo Dio, di cui riporto alcune espressioni: «Un uomo piange verso il suo Dio come un amico, / racconta al suo Signore la tribolazione sofferta, / spiega le sofferenze che subisce. / (…) Mio Signore, ho riflettuto nei miei sentimenti... nel mio cuore. / Non so che peccato abbia commesso (…). / Ho commesso forse un abominio verso di te? / Ho mangiato un frutto proibito, veramente cattivo? (…). / Non ho dimenticato tutta la bontà che mi hai mostrato, / neppure ciò che con leggerezza ho detto contro di te (…). / Si è moltiplicata la mia disgrazia, aderisce ai miei piedi. / Tu hai riempito la mia bocca con alimenti molto amari. / Hai infangato la mia acqua».

A questi fa eco un testo biblico, il Salmo 22, in cui l’orante sofferente, sentendosi abbandonato da Dio, non teme di metterlo sotto accusa dal momento che causa della sua maggiore angoscia sono proprio la lontananza e il silenzio di Dio: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? / Lontane dalla mia salvezza le parole del mio grido! / Mio Dio, grido di giorno e non rispondi, / di notte, e non c’è tregua per me (…). / Non stare lontano da me, / perché l’angoscia è vicina e non c’è chi mi aiuti. / Mi circondano tori numerosi, / mi accerchiano grossi tori di Basan (…). / Il mio cuore è come cera, / si scioglie in mezzo alle mie viscere (…) / Ma tu, Signore, non stare lontano!» (Sal 22,2-3.12-13.15.20).

Image 108Dipendenti da Lui

La creatura umana ha dunque consapevolezza di dipendere da Dio e sa che dalla sua relazione con Dio dipendono la sua felicità o la sua angoscia. L’uomo biblico ne è ancora più sicuro, perché continuamente si sente ripetere dal suo Dio: «Non temere, io sono con te!»; «Io sono un padre per Israele» (Ger 31,1); «Mi invocherà e io gli darò risposta; nell’angoscia io sarò con lui, lo libererò e lo renderò glorioso» (Sal 91,15); ecc. Una lettura troppo semplicistica di queste affermazioni aveva portato a coniare il “dogma della retribuzione”: chi fa bene riceve in premio la felicità, chi fa male riceve il castigo della sciagura. Ma basta un minimo di esperienza vissuta per rendersi conto che le cose non stanno proprio così. Anzi, il più delle volte sembra che siano proprio i malvagi ad aver migliori vantaggi nella vita. Lo dice bene Giobbe che, sebbene viva una vita da saggio e timorato di Dio, sperimenta la sofferenza più grande: «nel giorno della sciagura è risparmiato il malvagio / e nel giorno dell’ira egli trova scampo. / Chi gli rimprovera in faccia la sua condotta / e di quel che ha fatto chi lo ripaga? / Egli sarà portato al sepolcro, / sul suo tumulo si veglia / e gli sono lievi le zolle della valle. / Camminano dietro a lui tutti gli uomini / e innanzi a sé una folla senza numero» (Gb 21,30-33).

I profeti, i salmisti, e in ultimo Gesù, hanno mostrato inconsistente il «dogma della retribuzione», ma hanno insistito con forza di affidarsi con fiducia a Dio sia nei momenti lieti, ma ancor più nei momenti di angoscia e sofferenza. Gesù, mostrandoci il volto di Dio come quello di un padre che si premura delle necessità dei suoi figli, ci ha detto di rivolgerci a lui in ogni occasione con la sicurezza di essere esauditi: «Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra? E se gli chiede un pesce, darà una serpe? Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono!» (Mt 7,7-11).

Diritto di arrabbiarsi

Una tale insistenza ci autorizza a sperare che Dio ascolti ogni nostra preghiera, senz’altro quando gli chiediamo «cose buone». Perché allora tante nostre preghiere rimangono inascoltate? Perché Dio ci appare lontano proprio quando maggiormente abbiamo bisogno di lui? Perché il dolore innocente? Perché i genocidi, le oppressioni, le dittature, le ingiustizie, la fame, la carestia…?

Abbiamo il diritto di arrabbiarci con Dio, quando facciamo esperienza che la realtà non corrisponde a quello che lui ci ha promesso? Certo, ci sarà sempre qualche teologo, un padre spirituale che ci dirà che quello che noi sperimentiamo è solo apparenza, che nonostante tutto Dio ci è vicino e ci vuole bene. Perciò la nostra preghiera dev’essere fiduciosa e mantenere i toni della tranquillità, non dev’essere gridata. Sono convinto però che un tipo di spiegazione del genere, anche se è “religiosamente corretta”, lascia insoddisfatti e lascia latenti i sentimenti che hanno provocato le domande più audaci nei confronti di Dio.

La fede ebraico-cristiana è fede in un Dio personale che da sempre ha scelto di instaurare un rapporto di alleanza con l’umanità. Un’alleanza fra partner liberi. Certo, un rapporto tra il Creatore e le creature, tra il Padre e i figli. Ma le creature e i figli sono «immagine e somiglianza» del Creatore e del Padre. Perciò sono “innalzate” alla dignità del Creatore e del Padre. Quindi possono porsi di fronte a Dio per discutere con lui e anche per arrabbiarsi con lui, quando sperimentano che ciò che vivono non corrisponde a ciò che la Parola di Dio afferma. Il libro di Giobbe è un esempio eloquente del tipo di rapporto adulto tra Dio e l’uomo come la fede biblica suggerisce. Dio può anche non rispondere alle domande gridate dell’uomo, non può esimersi dal presentarsi faccia a faccia di fronte a lui.